L'amicizia


A chi, nel corso della propria esistenza, non è mai venuto in mente di rivedere un vecchio amico o un compagno di scuola perso di vista da chissà quanti anni? Penso a moltissimi, per non dire a quasi tutti, e quanti hanno attivato ricerche per rintracciarli? Penso molti, per non dire moltissimi, e fra questi quanti li hanno ritrovati? Un buon numero per non dire molti e sempre fra questi quanti li hanno incontrati? Direi alcuni per non dire pochi e quanti li hanno poi rivisti? Pochi, per non dire pochissimi e fra questi pochissimi quanti hanno continuato a rivedersi? Forse qualcuno, per non dire quasi nessuno.
A cosa si devono questi strani, almeno nell’apparenza, risultati? Al collante che teneva uniti quei legami: il progetto comune. Le amicizie più forti sono quelle che si stringono tra persone dello stesso sesso in età giovanile, quelle che Freud definì amori inibiti alla meta e molti secoli prima di lui Cicerone in “ Laelius de amicitia” scriveva: Amor enim, ex quo amicitia nominata est, princeps est ad benevolentiam coniugendam, ossia l’amicizia prende il nome dall’amore ed è il primo impulso a far unire le persone per affetto. Queste sono amicizie che solamente il prevalere dell’eterosessualità impedisce che si trasformino in amori supportati anche dall’intesa sessuale. Ma è la crescita con il gruppo dei pari e le sue mete stabilite e uguali per tutti, la licenza scolastica, prima quella elementare poi la media e per molti anche la maturità, che tiene uniti i legami amicali. Dopo le scuole superiori o ancor prima, alla fine delle medie inferiori inizia la diaspora, quelli che continuano a vedersi rimangono in pochi. Difficilmente durante gli studi universitari avviene il consolidamento di un’amicizia nata in ateneo. Oltre la grande amicizia che ha come progetto comune la crescita con le sue mete, vi sono amicizie occasionali con progetti comuni a breve termine come quelle che si formano durante i periodi delle vacanze ed altre ancora dai risvolti più imprevedibili. Nell’ambiente lavorativo le vere amicizie sono rare poiché nella maggior parte dei casi si tratta per lo più di pseudoamicizie riconducibili ad interessi personali che eventualmente prenderò in considerazione in un'altra sede.
Le persone col passare del tempo si trasformano, cambiano sia nel corpo che nella mente, basti pensare alle riunioni di compagni di classe dopo venti o più anni dalla fine dei corsi: difficilmente si riconoscono al primo sguardo, a volte occorre il ricordo di particolari per farceli ricordare e compagni che pensavamo diventassero chissà chi sono rimasti al palo mentre altri sui quali non si avrebbe scommesso un centesimo sono diventati qualcuno
In gioventù, dopo il periodo delle formazioni amicali ne inizia un altro di stasi rafforzativa, un periodo in cui i giochi sono ormai fatti, le amicizie si sono formate e difficilmente si sfaldano e quando ciò accade è dovuto quasi sempre a comportamenti che mettono in dubbio la cieca fiducia che ognuno pone nell’altro: nulla più di un tradimento uccide un’amicizia tra i giovani.
Gli amici o forse sarebbe meglio dire l’amico, l’amica del cuore hanno la precedenza su tutto e su tutti, l’investimento affettivo è grandissimo ed è per questo che un tradimento diventerebbe un’offesa imperdonabile. Eppure, quando due grandi amici si ri-trovano dopo un lungo periodo di latenza quasi non si riconoscono, ed a ragione in quanto si tratta di due altre persone delle quali ciò che rimane è solo un lontano ricordo e tutto quello che li teneva uniti pare essersi dissolto nel vento, nel vento del tempo, quel vento che disperde senza più riunire.

Max Bonfanti, filosofo analista

Sono un Bastian contrario


In una società in cui tutti fanno finta di essere qualcosa, che non sono, io sono felice di essere un “vecchio” e di considerarmi estraneo a qualunque conformismo.
Nel periodo in cui ero arrivato a Milano nei primi anni '90 un famoso chirurgo con cui stavo lavorando mi disse che per essere un toscano ero fin troppo ligio al dovere e al lavoro, ma probabilmente per questo motivo ho continuato sempre a fare il mio lavoro con la massima scrupolosità senza mai pensare di potermi approfittare del prossimo, né tanto meno di dare fastidio all'operato degli altri. Invece era un invito chiaro a “rompere le balle” perché altrimenti non ottieni nulla. Quel chirurgo era evidentemente abituato a pensare ai toscani che tendono ad avere una critica molto pungente e tagliente, ma da quel punto di vista io non ero come gli altri toscani che aveva conosciuto. Viceversa sono quello che a Siena viene chiamato il “bastian contrario”, cioè quello che fa esattamente l'opposto di quello che gli viene detto, insomma un anticonformista.
Sembra che nessuno oggi voglia considerarsi vecchio. Sicuramente non lo vuole chi si sottopone ad interventi di chirurgia plastica oppure chi fa di tutto per dimostrare di avere meno anni di quelli che ha per il vestire, il modo di comportarsi, l'atteggiarsi, perfino nel vantare di non avere mai studiato in vita sua. Per essere il paese con minor iscritti all'Università di tutta l'Europa ci possiamo ben vantare che nel nostro paese non ci sia alcun bisogno di studiare alcunché: basta la raccomandazione.
Tutti vogliono farsi sentire al passo con i tempi che corrono, con la frenesia addosso di essere lasciati ai margini della strada. Se tutto il mondo corre e non si ferma mai nell'utilizzo di macchine, che stanno facendo perdere l'utilizzo della memoria, noi siamo veramente costretti a correre per far finta di essere giovani? E' veramente così semplice prendere informazioni di continuo dai cellulari senza poi avere alcuna capacità di associare i concetti fra loro per crearne di nuovi? Nessuno vuole avere più su di sé gli anni trascorsi e vissuti pericolosamente, le scottature e le gioie vissute in un attimo, le città ed i visi ricordati nello spazio della propria mente? Tutto deve essere sempre documentato burocraticamente come nella peggior amministrazione esistente al mondo senza alcun spazio alternativo per la metafora?
Può sembrare in apparenza che divenire vecchi non implichi lasciar da parte la tecnologia e forse effettivamente è così, però la parola “vecchio” racchiude con sé l'esperienza che nessuna macchina potrà mai darti, il senso di provvisorietà che nessun ingegnere potrà mai spiegarti, la capacità di scegliere che nessun libro potrà mai suggerirti. Perciò vorrei invitare tutti le persone oltre i 50 anni a considerare di essere da esempio con il loro operato per i loro figli e le loro figlie, perché le parole possono essere ambigue nell'interpretazione, ma il gesto non può mai essere sottovalutato, in particolare quello che manifesta lo stile artistico. Questo è lo stile dei vecchi.
Gli anni portano con sé mille problemi di salute che vengono ad accumularsi senza che noi ce ne possiamo accorgere, anche facendo milioni di esami. Non è in questo modo che si fa prevenzione per le malattie. Non è così che si rimane giovane, non basta entrare nel turbine del consumismo sanitario più sfrenato. Se la società vuole farti credere qualcosa del genere la società è sbagliata. Sta a te criticarla. L'organismo umano è destinato ad avere un orologio biologico che scandisce la vita di ciascuno, come se ognuno potesse rivivere il proprio film solo guardando sé stesso nei confronti del mondo. Smarrire questo orologio equivale a perdere la consapevolezza del proprio mondo, degli affetti e degli avvenimenti più o meno belli che hanno caratterizzato la propria vita.
Considerarsi vecchio vuol dire per me sapere di essere sempre “sulle spalle dei giganti” senza aver paura di cadere giù, perché i giganti mi hanno insegnato a guardare il mondo da un altezza maggiore, dove posso a volte riguardare indietro nel passato, a volte tuffarmi nel futuro. Allora potrei anche permettermi di immaginare il mondo con la consapevolezza che un giorno non ci sarò più, perché avrò la sensazione di averci già fatto un viaggio prima degli altri.
Luigi Giannachi, medico e filosofo on-line


Non perdiamo il nostro fiuto

Acrilico su tela di Flavio Lappo, 2019

Quando esce un nuovo modello di cellulare, in tanti si mettono in coda per assicurarsi l'oggetto del desiderio, un oggetto tecnologico che in molti, soprattutto giovani e giovanissimi, non vogliono e non possono farsi mancare. Si parla di dipendenza e le code sembrano darne conferma. Il mio discorso non vuole fermarsi a queste considerazioni ma andare oltre per osservare qualcosa di diverso che possa far riflettere sull'uso dei media digitali. Durante l'estate ho viaggiato molto in treno, luogo privilegiato di osservazione, dove le persone sostano per ore e devono ingannare il tempo. Ho osservato e fatto statistiche: pochissimi libri di carta tra le mani, qualche tablet, tantissimi telefonini e apparecchi di questo tipo impegnavano la quasi totalità dei presenti. Ho visto far scorrere gli schermi con i polpastrelli alla ricerca di ogni informazione, immagine, mail, messaggi....durante tutto il viaggio erano in compagnia di questo oggetto anche se nel sedile di fronte o di fianco c'era qualcuno. Il dialogo non era sempre assente ma intervallato senza interruzione dal contatto epidermico con il media digitale, quasi fosse un prolungamento della mano e allo stesso tempo una coperta di Linus. 

Questo comportamento mette in mostra l'insicurezza e il bisogno di contatto cercato però nella macchina: forse gli umani sono troppo difficili da comprendere? Accade perché l'oggetto inanimato si crede non possa deludere? Il media non è una parte del nostro corpo ma spinge per diventarlo, noi glielo permettiamo rinunciando a tante abilità comunicative naturali e alla libertà stessa. Chi dipende non è libero. Se riflettiamo, è molto diverso il rapporto con le parti del nostro corpo, esse sono parti di un tutto che ci fa vivere autonomamente nel mondo; se ne perdessimo alcune come le mani, i piedi, gli occhi...potremmo vivere ugualmente. Esse non sono cose da cui dipendiamo ma parti integranti di noi. Il media digitale ci mette in contatto col mondo ma ci allontana dai rapporti umani fatti di dialogo, fatti di parole nate e scambiate con l'altro che ci vive accanto. Il media digitale e ancor più il touch screen, lo schermo tattile, tende a diventare un prolungamento di noi, ci robotizza, ci fa diventare tutt'uno col media. 

Ma soprattutto ci fa illudere di essere onnipotenti: basta un tocco e il meccanismo inizia a funzionare. Forse, è da questa illusoria onnipotenza che si sta diventando dipendenti: crescendo avevamo giustamente perduto l'onnipotenza infantile rendendoci conto di essere uomini limitati, mortali e finalmente separati dalla mamma. Ora stiamo diventando onnipotenti di un'illusione digitale, sì, perché i bottoni del vero potere non appartengono ai comuni esseri di questo pianeta. Così perdiamo il nostro “fiuto”, la capacità di intuire ciò che vuole comunicare chi ci sta difronte, cosa ha in serbo per noi, cosa nasconde dietro un sorriso o una parola. In definitiva, la dipendenza dai media ci rende solo più deboli.

Maria Giovanna Farina

Ritorno ad una vita a misura d'uomo





Ho letto l'articolo Mi sento in gabbia che condivido.
Tutto il mondo occidentale è stato rovinato dalla nostra frenesia di guadagno e dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse, delle persone, degli animali, dell’acqua, della terra.
Così succede che produciamo più di quanto consumiamo con spreco inverosimile lasciando milioni di persone affamate. E abbiamo dovuto inventarci il BIO per dare una parvenza di mangiare qualcosa di SANO, ma sano non lo è neppure il biologico per ovvie ragioni che però è diventato un business e fonte di ulteriore guadagno.
Il tutto perché la terra non è più coltivata dal contadino, gli animali allevati non più dal fattore... l’industria ha soppiantato il contadino e il fattore e per giustificare i costi ha bisogno di produzione massiva. Non produciamo di più perché ci sono più persone da sfamare, ma produciamo di più per far guadagnare le multinazionali.
C’è davvero bisogno di tutta questa merce? Basta guardare la quantità di merce esposta al supermercato. Per me non è una questione di diventare vegano, vegetariano o onnivoro, ma ribaltare il capitalismo e creare una società basata sul rispetto delle risorse, delle persone, degli animali, dell’acqua, della terra.
Quante malattie sono legate al troppo cibo che mangiamo? Come è possibile che ci sono infinite informazioni su cosa non dobbiamo mangiare per stare meglio? I centenari che esistono al mondo mangiano solo l’essenziale per il proprio corpo. L’esagerazione come lo sfruttamento sono frutto del benessere: possiamo davvero chiamarlo così?
Silvia Botti



IL NON UOMO PENSANTE


Partiamo con la spiegazione sulla scelta del titolo: tutti noi, nel bene o nel male, in modo giusto o in modo sbagliato, istruiti o ignoranti, pensiamo. Anche se la maggior parte delle volte non sembra. Qualunque azione, prima di essere eseguita, deve essere prodotta dalla nostra mente, sia essa ragionata o istintiva. Noi, in quanto specie animale, abbiamo un deficit nella nostra coscienza di uomo. Nell’età del “miracolo greco”, pensare era una delle attività che riscuotevano il maggior interesse all’interno delle polis. I grandi pensatori non avevano bisogno di fare lavori manuali per poter vivere, erano costantemente invitati a banchetti pubblici e privati, oppure, come nel caso di Aristotele, facevano da precettori ai figli delle famiglie più importanti (Aristotele alla corte di Filippo il macedone ha seguito l’istruzione di Alessandro Magno). Ma, ahimè, i nostri antenati non sono riusciti a trasmetterci questo bellissimo retaggio. Nel 400 a.C. le discussioni potevano durare delle giornate intere, noi non riusciamo a farle durare più di qualche minuto. Le discussioni devono essere come un fuoco, costantemente alimentato dal sapere e soprattutto dalla curiosità. La voglia di conoscere in modo viscerale le motivazioni sia di chi la pensa come noi sia di chi non la pensa come noi. Due persone magari sono arrivate alla stessa soluzione ma percorrendo ragionamenti differenti. Il fine ultimo degli scambi d’idee non dev’essere quello di dimostrare la propria ragione sul proprio avversario. Per una persona virtuosa tutto ciò è superfluo, è sufficiente la soddisfazione di aver avuto modo di esporre nel miglior modo possibile le proprie idee e, soprattutto, di aver fatto altrettanto con il proprio interlocutore. Molti non considerano questo aspetto durante un dialogo, il saper mettere a proprio agio la nostra controparte. Noi facciamo l’opposto, cerchiamo il più possibile di metterlo in difficoltà, appena inizia ad esporre le proprie ragioni è bersaglio continuo di nostre interruzioni, di nostre puntualizzazioni, che detto onestamente, sono fini a loro stesse. Tutto ciò non lo aiuta minimamente, lo porta a perdere il filo del suo discorso, a farlo continuamente divagare per “difendersi” dalle nostre critiche. Insomma, alla fine non si capirà nulla di quello che dirà e questo non perché la sua tesi sia sbagliata, ma per le nostre interferenze, per la nostra paura di avere torto. Il fine ultimo del dialogo non è il sovrastare a vicenda le idee, anche perché queste ultime con il tempo cambiano, ma il dimostrare a se stessi che tipo di persona siamo. Primo obiettivo dev’essere l’antico motto dell’oracolo di Delfi, poi approfondito da Socrate: “Conosci te stesso”. Questo, credo, sia il fine di un’ottima discussione e il primo passo per poter pensare come un uomo che ha coscienza di sé. Ora, tutto è molto diverso rispetto a qualche millennio fa. La frenesia della vita ha portato a togliere tempo a moltissime cose per avere il tempo di farne altre. Abbiamo tolto molto tempo alle cose fondamentali, alla famiglia, ai figli e al dialogo con loro, aspetti di vitale importanza per la crescita di tutta la famiglia. Basta guardarsi intorno. In pullman, in metro, in treno, tutti abbiamo uno smartphone in mano, oppure madri e padri che per non far piangere il bambino gli piazzano davanti il tablet con i cartoni animati. Il nostro obiettivo adesso è questo: pensare di vivere tranquilli e basta. Sbagliato. Un bambino vuol dire lasciare a casa il telefono e rimboccarsi le maniche. Se piange un motivo c’è e non è il bambino ad essere indemoniato, sono io genitore che non capisco nulla dei bisogni di mio figlio. Rousseau, in uno dei suoi libri più famosi, l’Emilio, parla di un bambino che ha bisogno di crescere all’aperto, di giocare e fare le sue esperienze naturali liberamente senza troppe interferenze. È questo che aiuta a creare la propria coscienza di essere umano, pensante. Invece i nostri bambini sono, purtroppo, l’opposto. Cari genitori bisogna svegliarsi, non si è perfetti, tutt’altro, si fanno tantissimi errori durante la crescita della prole, ma bisogna rendersene conto ed ammettere di avere bisogno d’aiuto, pertanto la miglior cura è parlare, dialogare, scambiarsi informazioni utili, reali ed empiriche, non digitali e fasulle! Quello che prima era una discussione figlia di anni ed anni di studi e riflessioni adesso cade in un botta e risposta fatto di argomentazioni futili e troppo spesso basate su notizie false che nemmeno leggiamo più, perché ci basta leggere solo il titolo. Ecco il cuore del nostro problema: invece di prenderci del tempo nella ricerca di prove reali, tangibili, scritte su libri di testo o manuali, ci accontentiamo troppo spesso della prima notizia che la rete ci propone. Ma torniamo al pensiero. Ciò che una volta era un piacere per l’uomo greco e, in parte anche romano, adesso è considerato faticoso dall’uomo contemporaneo. È come se ora non accettassimo più di sprecare fatiche per pensare. Non vediamo altro che il moltiplicarsi in modo esponenziale dei nostri problemi e tutto ciò ci paralizza, invece che essere stimolati a trovare una soluzione per risolverli. Ecco a che punto siamo arrivati. Crediamo veramente che si viva meglio senza pensare, e già questo modo di ragionare è inconcepibile. Quando pensiamo, ragioniamo, è come se facessimo le polveri alla nostra mente. Se facciamo fatica e solleviamo tanta polvere è solo perché è tanto tempo che non usiamo più la testa. Ma quando si fanno le pulizie e si solleva tanta polvere noi sappiamo che pulendo, piano piano i risultati si ottengono. Invece per il pensiero no. Appena iniziamo a ragionare ci assalgono subito mille pensieri e al posto che continuare a pensare iniziando a fare pulizia di tutta la spazzatura, ci paralizziamo. Vorremmo tornare al punto di partenza, non avremmo mai voluto sollevare quel polverone. Questo siamo noi, questo è il non uomo pensante. Una specie che non accetta volontariamente la cultura e accetta volontariamente di non ergersi a uomo, così non si accorge che così si rifiuta di vivere.
Daniele Detratto, studente di filosofia




Mi sento in gabbia


La lente di Socrate

opera di Paola Giordano, Il Gabbiano, 100x100, tecnica mista


Sono tanti anni che rifletto sulla possibile scelta alimentare vegetariana, la immagino soprattutto come protesta contro gli abusi perpetrati nei confronti degli animali da allevamento intensivo. 
Ci sono tanti documenti e documentari che mostrano la vita di maiali e polli in condizioni disumane, direi dei lager dove le povere bestiole sono sottoposte a vere e proprie torture. Le scrofe ad esempio vivono in spazi angusti, costrette ad allattare senza potersi muovere in gabbie, quali fossero lì ad espiare da innocenti qualche crimine efferato. Non hanno nessuna colpa, sono solo incapaci di ribellarsi ad una vita di abusi. Non parliamo poi dei polli a cui da pulcini tagliano la punta del becco per impedire loro di distruggersi a vicenda a causa di un'aggressività indotta dalle condizioni assurde in cui sono costretti ammassati in gabbie; nel caso in cui li allevano liberi di muoversi, sono obbligati alla luce accesa h 24 per produrre uova senza interruzione. Queste ed altre terribili vicende sarebbero sufficienti per farci decidere di smettere di nutrirci di carni e derivati. I prodotti alimentari nati da questo tipo di allevamento oltre ad essere eticamente inaccettabili, sono anche nocivi alla salute per tutto lo stress, gli ormoni e i farmaci somministrati agli animali. Il mio viaggio tra i misfatti della nostra umanità alimentare non si è fermato qui. Ho scoperto che anche il miele industriale nasce dallo sfruttamento intensivo delle api alle quali non risparmiano atrocità, fino ad ucciderle per non doverle mantenere durante l'inverno: poi le ricomprano in primavera! Sembra un orribile paradosso e spero non sia davvero così.
Se però ci allontaniamo dal mondo animale, a cui tengo molto, e ci spostiamo sugli esseri umani, nascono nuove e non meno sconcertanti verità. Sappiamo tutti chi sono, per la maggior parte dei casi, le persone che raccolgono pomodori, agrumi, verdure varie. Uomini e donne del cosiddetto terzo mondo, ma anche italiani, che lavorano con salari da fame, quindi sfruttati, che dormono in stamberghe, che non vivono un'esistenza degna di questo nome. Allora non posso che concludere la mia riflessione dicendo che è tutto il sistema a non funzionare: per fedeltà a noi stessi sia come onnivori, vegetariani o vegani saremmo costretti a non mangiare più nulla perché ogni prodotto, a parte quello coltivato o allevato da noi stessi in campagna o in piccole aziende veramente bio, nasce dallo sfruttamento di qualche essere vivente. Andando oltre, non dovremmo neppure vestirci... 
La soluzione migliore non è semplice da raggiungere, certo è che andare avanti così non è più accettabile. Di una cosa ho la certezza: anche in questo caso è necessario un dialogo tra le varie posizioni con l'intento di abbandonare estremismi, proposte improduttive e spesso impraticabili. Come il gabbiano di Paola Giordano, vorrei uscire dalla gabbia.
Maria Giovanna Farina


Invece di festeggiare, ci separiamo!




Quando ho sentito parlare di divorzi grigi, ho pensato a divorzi tristi, sofferti, e mi son detta, perché, potrebbe essere diverso? Tutti i divorzi, tutte le separazioni sono tristi, grigie e si portano dietro un carico imponente di dolore.
Ed invece non era corretto quel che pensavo; il termine divorzi grigi, sta ad indicare separazioni tra coppie che hanno i capelli grigi, ovvero separazioni tra coniugi over 60, 70 ed anche 80 anni. Qualcuno potrebbe sorridere, ma questi divorzi sono in grande aumento. Come mai? Frutto dei tempi? Forse sì.
Il fenomeno, chiamiamolo così, arriva dall’America, come tante cose nuove, e noi arriviamo secondi, ma abbiamo imparato bene. Sono sempre più i matrimoni che, celebrati 25, 30, 35 anni fa, si sciolgono. È che quando gli esempi in questo senso vengono da persone dello spettacolo, da vip o gente illustre, il tutto viene accettato come una stramberia dell‘ambiente, ma quando a separarsi sono i nostri vicini di casa, gli amici che hanno condiviso con noi anni e anni di vita; i cui figli sono andati a scuola e sono cresciuti con i nostri, beh, la cosa fa decisamente più effetto.

Ma perché tutto questo? Le cause sono varie, anche se alla base di tutto sta il fatto, e questo forse è sì frutto dei tempi, che non si ha più voglia di sopportare, tirare avanti per il quieto vivere, accettare situazioni di convenienza; ognuno rivendica il suo diritto ad essere felice. Come dire che prende forma un maggior senso di individualismo, a scapito di quel sentimento che difendeva la famiglia ad ogni costo.
E poi la vita media si è allungata, si è più giovani a lungo, c’è spesso una maggiore indipendenza economica….. Tutto contribuisce. Per la donna, figli cresciuti, nido vuoto, un marito sconosciuto, che finalmente in pensione gira per casa e dà un po’ fastidio…. Se il rapporto non è più che forte, se non c’è quella complicità che fa da collante tra due persone, ci si scopre diversi, con poche cose in comune, ed allora scatta qualcosa, la moglie decide che è ora di pensare a se stessa.
E’ stanca di fare la sguattera di casa, di servire un uomo che magari non le ha mai dato, anche in gioventù quello che sognava, vuole uscire da quel ruolo che ormai le sta stretto.
Vuole finalmente soddisfare i sui bisogni, realizzare le sue aspirazioni, o semplicemente avere tempo per se stessa. Ed allora decide di rompere. Non per avere una nuova vita affettiva, ma per dedicarsi a sé, ai nipoti, ai figli. Per l’uomo è diverso: per lui spesso è così difficile invecchiare, i capelli grigi danno fastidio, quella solita moglie, tanto utile e servizievole, è pur sempre la solita minestra e forse neppure più tanto gustosa. Vuoi mettere quella giovane collega di 20 anni meno che lo guarda affascinata? 

E così cade in trappola, una trappola dorata per un po’, ma pur sempre un legame che non cancella gli anni e la differenza d’età. E dietro a tutto questo c’è sofferenza: la donna soffre prima, durante la separazione, ma poi con l’aiuto di chi le vuole bene, si sa riprendere, organizzare. La donna reagisce, ha più risorse, guarisce. L’uomo, invece, se dapprima si sente ringalluzzito dalla nuova esperienza, dalla ventata di gioventù che sta respirando, presto si rende conto che forse non ne valeva la pena, e, salvo aver incontrato un grande amore, crolla sotto il peso della sua scelta.

Certo, non è sempre così, ma, pur condividendo il pensiero che l’amore ha da essere assecondato ad ogni costo, un pensiero doppio ce lo farei prima di rovesciare una vita intera. Perché non provare a ricucire un vecchio rancore, perché non cercare insieme un antidoto alla noia di una vita pensionata, perché non mettere un pizzico di pepe in più nel rapporto con la donna o l’uomo che ho scelto all’inizio della mia vita? E’ pur sempre la persona che ha condiviso con me anni ed anni, che ha superato difficoltà e vinto battaglie. È colei/colui che conosce vizi e virtù e se mi sono fidata di lei/lui una volta, non può succedere ancora?

Giuliana Pedroli, giornalista

Pensiero e linguaggio, matrimonio d’amore?



Quale rapporto c’è fra pensiero e linguaggio? È il pensiero a condizionare il linguaggio o è vero il contrario? Si tratta di uno scambio vicendevole oppure le due funzioni rimangono confinate ciascuno nei limiti della propria sfera d’azione? E il più ampio contesto socio/culturale in cui sono inseriti che relazione intrattiene con entrambi? Sono temi, questi, che hanno attraversato la storia della Filosofia e che hanno dato filo da torcere anche agli psicologi, psichiatri, neuropsichiatri e cultori delle neuroscienze. Oggi, sfogliando manuali, riviste specializzate e saggi monografici ci rendiamo conto che abbiamo accumulato una moltitudine di studi e che non sempre è facile barcamenarsi in essi. 
Cerchiamo, allora, in maniera semplice e senza pretesa di completezza, di chiarire qualche punto e di tirarne fuori delle riflessioni che possano essere feconde per la cura della persona. La parola è ciò che ci rende pienamente umani. Questo lo considererei un punto di partenza e non ci dovrebbero essere grosse obiezioni al riguardo. Anche gli animali comunicano, ma qui facciamo riferimento alla comunicazione verbale, che usa simboli e fornisce strumenti al pensiero per distaccarsi dall’immagine concreta e “volare” nel mondo dell’astrazione.  Nel corso dei millenni le varie comunità umane hanno via via formalizzato sistemi linguistici molto diversi fra loro, a seconda delle zone geografiche e della storia vissuta. È abbastanza condivisa l’idea che la lingua parlata influenzi la strutturazione del pensiero, così come il pensiero si riversa a sua volta nel linguaggio e si rende palese. Faccio qualche esempio, anche banale, per intenderci. Non è indifferente, a mio avviso, che in inglese il soggetto non si possa sottintendere, mentre in italiano sì. E che il verbo “piacere” (“to like” in inglese) implichi una diversa costruzione: in italiano il soggetto delle frase è la cosa che piace, in inglese lo è sempre la persona che prova il sentimento del piacere. Inoltre, in inglese “io” (“I”) si scrive rigorosamente in maiuscolo, guai a scriverlo in minuscolo. 
È solo un caso oppure queste scelte linguistiche trovano senso nella storia di un Paese specifico e particolarissimo? Pensiamo ad esempio al fatto che gli inglesi sono gli unici ad avere il posto di guida a destra e a guidare sul lato sinistro della strada; gli esempi potrebbero essere tantissimi ed esprimono una coerenza. E che dire di quelle lingue che non prevedono termini per indicare i colori, se non “chiaro” e “scuro”, e di quelle che invece contemplano ben quaranta modi per indicare la “neve”? Come dire: le scelte linguistiche non sono mai casuali all’interno di una Comunità e la stessa cosa vale anche per i singoli. Questo lo sanno bene tutti coloro che, a vario titolo, si occupano della cura dell’altro: psicologi, psicoterapeuti, counselor, psichiatri, consulenti filosofici. 
Chi lavora al fine di aiutare l’altro a costruire il proprio benessere sa che va prestata particolare attenzione all’uso delle parole, alla costruzione delle frasi, alla sintassi del discorso. Chiaramente non per valutarne la perfezione grammaticale, quanto per cogliere aspetti importanti del modo di pensare della persona che si ha di fronte. Perché il linguaggio palesa il pensiero, e credo che su questo non ci siano dubbi di fraintendimento. Chi si occupa dell’altro ha, tuttavia, bisogno di leggere fra le righe e dentro le righe. Il lapsus, la distorsione, la dimenticanza, il non detto, lo sappiamo, ci danno molte più informazioni rispetto a quello che viene razionalmente detto. Ecco che il terapeuta e il counselor hanno necessità di cogliere proprio le falle e le lacune del linguaggio, le frasi spezzate a metà come gli interminabili giri di parole. Il tutto, ovviamente, all’interno di una lettura globale della comunicazione del soggetto. Attenzione quindi agli aspetti paraverbali (tono, volume di voce, incrinatura, accentuazioni, affettazioni ecc) e a quelli non verbali del discorso (postura, orientamento fisico, atteggiamento, movimenti ecc), che spesso sfuggono al controllo cosciente e sono molto più rivelatori del contenuto del discorso stesso. Pensando più volte all’obiettivo del nostro laboratorio interdisciplinare, “L’accademia del ben-essere”, mi è venuto in mente che, quando abbiamo a che fare professionalmente con la sofferenza dell’altro, è solo l’uso corretto della parola e l’attenzione ai diversi livelli della comunicazione che può fornire un valido strumento d’aiuto. Scegliendo di focalizzarci, al momento, sulla comunicazione verbale, mi chiedo se il terapeuta e il counselor non debbano “inventarsi” strumenti per perdere meno informazioni possibili. Ad esempio, sarebbe utile chiedere al cliente/paziente di scrivere. Scrivere a casa sua, ma anche durante la seduta, sia a due che a quattro mani, con il terapeuta. Come ben sappiamo, scrivere aiuta a tirar fuori il proprio pensiero più profondo, le incertezze più radicate, i desideri, come le paure e i fantasmi. Scrivere aiuta, ma non penso solo alla scrittura autobiografica. Tutto quello che scriviamo ha anche fare con i nostri vissuti e con la nostra psiche, nel senso più ampio. Solo che i significati non sempre sono evidenti e allora l’aiuto di un professionista della parola talvolta può essere fondamentale per districarsi man mano tra i diversi livelli di significato, che vanno interpretati e singolarmente e in relazione fra loro. E allora, chiedere al cliente di scrivere una storia, anche breve, anche senza finale, di getto, senza grosse riflessioni e considerarlo poi un materiale ricchissimo da cui leggere il pensiero dell’altro e tutto il “retro pensiero”, può essere un’operazione praticabile. E probabilmente utile. 
Pensiero e linguaggio s’influenzano a vicenda, dicevamo all’inizio, e con tutta probabilità lo fanno in molteplici modi e direzioni e allora lavorare sulla produzione linguistica del soggetto rappresenta una via maestra per accedere alla mente dell’altro. Se la produzione linguistica viene scritta, si possono “fermare” dei passaggi, contemplarli, analizzarli e approfondirli.
Eleonora Castellano www.eleonoracastellano.com 
(Tutti i diritti riservati©)

Amorezia



di Loretta Del Tedesco

Puntate precedenti http://www.laccentodisocrate.it/Deltedesco43.html

- A muovere la mia penna è l'Amore.- dissse Ariel.
E Sebastian, tra il sarcastico e l'ironico:
- Sai che novità! Se vuoi che qualcun'altro, oltre ovviamente, ai tuoi gentili parenti, leggano ciò che scrivi, o parli d'amore (in modo piccante, grazie), oppure sei destinato a camtartela e suonartela in beata solitudine, senza uno straccio di pubblico.Eh no, mio caro Seby! Parlo dell'Amore perché è l'unico sentimento che mette in gioco tutte le sfumaturedell'anima delle persone...
A questo punto intervenne Flonder:
- Ma tutti i rapporti tra le persone, se sono profondi, ci mostrano tutte le loro sfumature...
- Nì, carissimo Flò! Infatti, è vero che tutte le relazioni vanno coltivate con estrema cura e costanza, altrimenti muoiono lasciandoci uno spaventoso vuoto dentro, ma l'Amore ha bisogno di cure tutte sue...
- Spiegati meglio, ti prego!- chiese Flonder particolarmente curioso ed interessato.
Ariel stava per rispondere, quando Seby replicò stizzito:
- Eh no, Vecchio mio! Com'è che quando certe domande le faccio io sono irriverenti, mentre quando le fai tu sono ok?
Flò dette una pacca amichevole sulla spalla di Seby:
- Eddai, non fare il Sushi!
- Sushi? Ma cos'hai mangiato a pranzo? Risotto alla marinara alluvionato allo champagne?
Flonder sorrise:
- Suscettibile...Sushi per gli amici, ok?
Poi rivolto ad Ariel:
- Continua pure, cara!
Con una sorta di amara tristezza nella voce, Ariel proseguì:
- Beh, diciamo che Cupido è sempre stato un Tiratore Non Scelto...Sì insomma, uno che non sa prendere bene la mira...Anche se devo dire che l'ultima volta...
Improvvisamente Ariel si fece taciturna, alzò gli occhi verso l'alto, fissò lo sguardo tra le stelle, scivolando dolcemente giù dallo scoglio. Un istante prima di abbandonarsi al sonno della notte, riconobbe una voce che, sin da subito le suonò famigliare.
Si riscosse ed esclamò felicemente sorpresa:
- Che piacere, mio caro Ulisse! Dopo così tanto tempo non ci speravo più!
- Ma perché mi chiami Ulisse, ora?- le chiese visibilmente sorpreso.
- Perché, da quando ci siamo conosciuti, ho sempre pensato che la tua vita avesse molto in comune con quella dell'Eroe di Omero: anche tu, infatti, stai compiendo un faticoso ed estenuante viaggio alla ricerca della tua Itaca, dove potrai esseere finalmente felice...
- Sì, e se io sono Ulisse, tu sei Penelope... Ma con me, non attacca! In che lingua te lo devo dire?- replicò Ulisse, tra la noia e la stizza.
E Ariel, con dolcezza:
- No, Ulisse. Lasciami spiegare. So di non poter essere Penelope, per te...Infatti sono come Penelope.
- Cioè?
- Anch'io sto cercando faticosamente di riannodare dei fili.
- Continuo a non capire...
- I fili che devo riannodare sono quelli spezzati dalla rabbia che mi ha colto quando ho scoperto che la persona che ami non sono io,
- Perché stai facendo tutto questo?
- Perché ho capito che non posso permettere che i fili che comunque ci legavano, si spezzino definitivamente...
c- Da dove si ricomincia, allora?
- Credo da ciò che ci ha fatto incontrare e, soprattutto, ci ha fstto scoprire che siamo molto simili...La nostra comune passione per i libri...A proposito, ma lo sai che io, tu e la tua eroina letteraria abbiamo molto in comune?
Loretta Del Tedesco
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Il sogno del Faraone

Immagine tratta da: osservatoriorevisioneveicoli.com

Lo specchio di Archimede


Analisi di un sogno biblico

Premessa

Questo lavoro analizza un sogno biblico dal punto di vista del simbolismo psicoanalitico. In questa analisi si è tenuto conto che il sogno in questione è inserito in un testo che non si occupa di sogni ma vengono utilizzati per promanare la parola di Dio.
Leggere un testo ha molte analogie col “leggere” un sogno. All'autore del testo si sostituisce il sognatore, al testo del libro “conscio”, il testo del sogno “inconscio”. Perché mettere tra virgolette i termini conscio e inconscio? Il motivo è che entrambi i termini rappresentano solo apparentemente ciò che vogliono definire in quanto indicano solo quella parte che apparentemente prevale.
Anche se l’autore di un testo sceglie “coscientemente” l’argomento da sviluppare, ci sono fattori inconsci che lo spingono a scrivere in un certo modo anziché in un altro. Anche se la consapevolezza dell’autore prevale non è tuttavia scevra da incursioni dell’inconscio.
Nel sogno invece, l’elaborazione onirica è interamente frutto dell’inconscio, ma nell'istante stesso in cui il sogno viene trascritto, subisce modifiche personali che lo rendono non più prodotto esclusivo dell’inconscio: subisce l’effetto dell’elaborazione secondaria.
L’analisi del sogno in questione non terrà conto del parere e dell’interpretazione degli ermeneuti ufficiali. Sarà un lavoro parallelo al testo che diventerà esso stesso un testo nel quale si svilupperà un nuovo cammino.
Grazie alle distanze temporali sarà una produzione libera e non condizionata da pressioni politiche, religiose o culturali.
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Nel sogno l’elaborazione onirica è interamente frutto dell’inconscio, ma nell’istante stesso in cui viene trascritta subisce modifiche personali che la rendono non più esclusivo elaborato dell’inconscio ma il risultato dell’elaborazione secondaria.
Tra una produzione letteraria ed un sogno vi sono delle analogie in quanto entrambe hanno un contenuto manifesto ed uno latente: sono passibili di due livelli di lettura. Ciò vuole dire che dall’esterno è possibile trovare sia in uno scritto che in un sogno, particolari sfuggiti agli autori e quindi comprendere gli autori più degli autori stessi. Per un livello di lettura sintomale occorre introdurre il simbolismo e le figure retoriche, due in particolare:la metafora e la metonimia.
La metafora dal greco metaphorà, trasporto, mutamento, da metapherein, trasportare, trasferire, è un traslato per relazione di somiglianza che consiste nel trasferire ad un oggetto un’immagine che evochi con immediatezza l’impressione o il sentimento che di fronte ad esso si prova meglio che definendo con esattezza le qualità dell’oggetto.
Molte parole ormai nell’uso comune sono nate come metafore perdendo in seguito l’immagine originaria; arrivare significava approdare, toccare la riva.
Molti dei nostri “modi di dire” sono chiaramente metaforici anche se le immagini che racchiudono non ci colpiscono perché ce ne serviamo abitualmente come per esempio: un filo di voce, un mare di guai, un lago di sangue, scoppiare in lacrime.
Nel campo artistico le metafore occupano un posto di prim’ordine e si può dire che ogni poeta e scrittore ne abbia fatto uso.
La metonimia, dal greco metonimìa è invece un traslato per relazione di dipendenza e di qualità e può consistere
Nell’esprimere l’effetto in luogo della causa: guadagnarsi il pane col sudore della fronte
Nell’indicare il contenente in luogo del contenuto: bere un bicchierino
Nel nominare l’autore in luogo dell’opera: ho letto il Manzoni
Nell’indicare il periodo per le persone che vi vissero: il settecento sosteneva il primato della ragione
La metonimia a volte è solo una locuzione abbreviativa come può essere “bere un bicchierino”; altre volte, come la metafora, fa nascere un’immagine, una sfumatura espressiva come “guadagnarsi il pane col sudore della fronte” in cui presenta con immediatezza la fatica, in pratica la “fa vedere”.

Un breve cenno lo vorrei dedicare ad un’altra importante figura retorica: la sineddoche poiché anch’essa è un traslato, per relazione di quantità e il suo uso può consistere
Nell’usare la parte per il tutto: la vela per indicare la barca a vela
Nell’usare il numero determinato per l’indeterminato: te l’ho detto cento volte
Nell’usare il singolare per il plurale e viceversa.

Tutte queste figure retoriche vengono usate dall’inconscio per esprimere nel sogno i suoi contenuti latenti.
Altro elemento da considerare nella lettura sintomale è la differenza tra significato e significante. Ferdinand de Saussure, importante linguista svizzero, suggerisce di chiamare significato il concetto e significante l’immagine acustica intesa non come suono ma come l’impronta psichica del suono.
Il segno linguistico è allora la rappresentazione grafica del rapporto tra significante e significato.
Il segno rimanda quindi sempre a qualcosa d’altro ed essendo sempre significante di un significato, non può essere segno di sé stesso e ciò, come dice Franco Fornari, è un po’ come la coscienza che è sempre “coscienza di qualcosa” nel senso che rimanda sempre a qualcos’altro da sé.
Il rapporto tra significante e relativo significato si realizza attraverso la mediazione dell’insieme dei segni linguistici.
Da quanto sopra si evince che i significati o simbolizzati sono pochi (corpo, genitori, nascita, morte, sessualità) mentre i significanti o simboli che riconducono ai precedenti sono moltissimi.

La dea Hathor
IL SOGNO DEL FARAONE

Pur non entrando nella sacralità del testo biblico che preferisco lasciare ai teologi, è innegabile che il paratesto sia la fede. Questa considerazione fa sì che se la Bibbia viene interpretata alla luce della fede, l’interpretazione che predomina è la parola di Dio.
L’ermeneutica è l’insieme della teoria e della tecnica interpretativa soprattutto dei testi antichi e in particolare della Bibbia.
Sono molti i punti nella Bibbia in cui delle proposizioni sono ripetute più volte. Nel caso del sogno del Faraone per esempio, lo stesso sogno è ripetuto due volte, ma vi sono altri punti, come nel Vangelo secondo Matteo, che le stesse cose vengono ripetute per ben quattro volte. Ciò è dovuto sia alla propensione della lingua ebraica ad usare le ripetizioni, sia al fatto che la Bibbia inizialmente veniva trasmessa oralmente e quindi più un concetto veniva ripetuto e più erano le probabilità di ricordarlo e di conseguenza di tramandarlo con le inevitabili variazioni che ognuno apportava.
Nel testo biblico ciò che più conta è il significato. Nel Vangelo secondo Matteo, in tre punti un angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, marito di Maria, per tre volte e sempre a proposito e sempre per comunicare qualcosa. È evidente che in questi casi non è tanto importante né influente accertare la veridicità del sogno quanto sottolineare la volontà di Dio.

Scegliendo di analizzare un sogno biblico dovrò attenermi ad una interpretazione onirica “anomala”, in quanto potrei analizzare un sogno che sogno non è e anche se lo fosse (per Freud anche un sogno inventato può essere analizzato come se fosse vero) non potrei conoscere né il resto diurno né le associazioni del sognatore tanto utili per una più completa e corretta analisi.
Prima di iniziare l’esame della pericope proposta voglio ribadire che la Bibbia è un testo polisemico, può essere letto a vari livelli con una serie infinita di interpretazioni.
Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele, ultimogenito di dieci figli (secondo alcuni dodici) viene venduto dai suoi stessi fratelli a dei mercanti. Si rivelò un grande interprete di sogni tanto da diventare da umile schiavo, consigliere del Faraone.
Nella Bibbia lo svelamento dei sogni è sempre oniromantico sia per i sogni interpretati da Giuseppe che per tutti gli altri: il sogno è un messaggio di Dio e pochi eletti sanno interpretarlo. Nella Bibbia i sogni comunicano ciò che accadrà. Verrà qui analizzato il sogno del Faraone, il famoso delle vacche grasse e delle vacche magre, quello che permise a Giuseppe, interpretandolo al Faraone, di entrare nelle sue grazie. (Genesi, 41)

Il sogno in questione è prima raccontato dal narratore e dopo, è fatto raccontare dal sognatore, il Faraone.
Si notano delle sfumature a volte appena percettibili, altre vigorose. Nonostante il significato mantico rimanga lo stesso la versione del faraone è più ricca di particolari, più incisiva. Il Faraone non può esprimersi come il narratore.
Poiché nessuno degli indovini interpellati era in grado di capire il sogno, al capo-coppiere venne in mente che un giovane ebreo, schiavo del capo-cuoco sapeva interpretare con grande maestria i sogni: fu così che il Faraone lo fece chiamare e gli raccontò il sogno.
Giuseppe prima di esprimersi, tiene a precisare di essere un tramite di Dio. Anche se divinatoria e nota a tutti, la sua è una lettura ad un secondo livello. Tralasciando i risvolti religiosi, cercherò di fare una lettura ad un altro livello, proverò a fare un’interpretazione pisicoanalitica.


Nel mio sogno io stavo sulla riva del Nilo.
Ed ecco salire dal Nilo sette vacche grasse,grasse di carne
E belle di forma, e pascolare nella macchia di papiro.
Ed ecco altre sette vacche salire dopo quelle, deboli,
bruttissime di forma e magre di carne: non vidi mai
di così brutte in tutta la terra d’Egitto.
Poi le vacche magre e brutte divorarono le prime sette,
quelle grasse.
Ed entrarono bensì queste nell’interno di quelle, ma
Non si capiva che vi fossero entrate, perché il loro
Aspetto era brutto come prima e mi svegliai.
Poi vidi nel mio sogno sette spighe venir su da un solo
Stelo, piene e belle. Ma ecco sette spighe secche,
sottili e arse dal vento orientale, che germogliavano dopo di quelle.
E le sette spighe sottili inghiottirono
Le sette spighe belle (Genesi 41, 16)

Il numero sette è un numero magico e lo ritroviamo spesso sia nei libri sacri che nelle fiabe e leggende. Esprime la conclusione di un ciclo, la totalità e la perfezione. Sette sono i giorni della settimana e il settimo è il più perfetto, quello del riposo del Signore dopo la Creazione.
È un numero sacro nell’antica Cina, delle tradizioni greche, dell’Islam, delle tradizioni Indù e dell’Apocalisse dove il sette appare riferito a re, tuoni, flagelli, chiese, stelle, spiriti divini. Sette sono i peccati capitali e le virtù; a Salomone occorsero sette anni per costruire il tempio.
Il sette è un numero dinamico, rappresenta il movimento in vista del raggiungimento della perfezione.
Può anche rappresentare l’ansietà di fronte all’ignoto rappresentato dal rinnovamento di un ciclo affettivo; questa possibilità è anche suffragata dalla presenza nel sogno di simboli che nella semiosi affettiva rappresentano la madre, come l’acqua, in questo caso del fiume Nilo, la terra e le vacche.
Un esempio molto bello ed esplicativo a proposito della terra come significante (non espresso) di madre, lo si trova in Giobbe (1,19) dove lo stesso Giobbe dice: “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! ”
Inoltre il numero sette conferisce al messaggio del sogno un carattere di ufficialità, sacralità.
La vacca simboleggia la maternità, la madre che genera la vita.
Nell’antico Egitto c’era la dea Hathor che aveva le sembianze di una vacca e simboleggiava la fertilità, la ricchezza e il rinnovamento della vita.
Nell’antichità la vacca è associata alla luna piena, altro simbolo femminile, e questo archetipo di madre feconda è riscontrabile sia in occidente che in oriente.
Il fatto che nel sogno del Faraone le vacche pascolino dà l’immagine della tranquillità, del tempo che scorre senza contrasti.
Il fiume: il riferimento preponderante è alla simbologia materna anche se può indicare il finire della vita o le passioni del sognatore.
In questo caso la preferenza per la simbologia materna primeggia anche perché è riferito al Nilo, fiume che con le sue piene garantisce fertilità a tutte le terre da esso invase.
Nella prima parte del sogno appaiono dunque due simboli: l’acqua e le vacche, pregne delle componenti materna e di fecondità.
Gli stessi concetti, definiti da altri significanti, appaiono anche nella seconda parte del sogno.
Abbiamo così quattro diversi significanti della generatività e quattro volte la presenza del numero sette.
Il numero quattro, pur essendo presente solo in modo implicito, merita di essere tenuto in considerazione nell’analisi del sogno.
Il sognatore sottolinea fortemente che le altre sette vacche sono bruttissime e malconce e di non averne mai viste di così brutte in tutte l’Egitto.
Queste ultime, contrapposte alle prime sette che oltre ad essere di bell’aspetto sono anche grasse di carne e quindi non di grasso, particolare quest’ultimo che sottintende forza e vitalità.
Simbolicamente le vacche grasse e magre pur rappresentando lo stesso concetto, mettono in evidenza qualità opposte dello stesso oggetto come potrebbero essere quelle della madre positiva e quelle della madre negativa.
Non avendo a disposizione le libere associazioni posso ipotizzare che la fertilità materna sia in realtà la capacità produttiva del regno del Faraone: si evincerebbero così i suoi timori: fattori negativi in grado sconvolgere, fino al punto di fagocitare tutto ciò che di buono c’è nel suo regno. I fattori in questione potrebbero riferirsi sia a calamità naturali che ad eventi bellici. In ogni caso alla base c’è il timore di poter perdere tutto.
In sintesi, il bene verrebbe vinto e divorato dal male non lasciando un solo segno della ricchezza preesistente.
La seconda parte del sogno è in effetti, con l’aggiunta della presenza del vento, una iterazione della prima: i concetti sono gli stessi anche se i significanti cambiano. Tutto ciò potrebbe indurre a ritenere un fenomeno di partenogenesi abortito che, tradotto, può rappresentare un fallito tentativo di autarchia.
La spiga esprime fecondità, contiene il grano che è il simbolo del dono della vita e di abbondanza. Artemidoro, il precursore degli onirologi , nel secondo secolo dice:”Il pane d’orzo è sempre propizio perché è tradizione che questo sia stato il primo cibo degli uomini e degli dei.” .
Che sette spighe prima e sette spighe poi nascano da uno stesso stelo vuole indicare la forza generatrice di questo stelo e conseguentemente il rapporto con la forza generatrice della madre.
Athor, simbolo di fertilità. tratta da Wikipedia

Un elemento che manca nella prima parte del sogno è ciò che causa l’abbrutimento, la degenerazione. Mentre per le vacche non è dato di sapere la causa del loro degrado, per le spighe invece la causa è rappresentata dal vento torrido d’oriente.
Il vento, se cagiona danni simbolizza l’angoscia, un tormento interiore.
Il vento è aria che a sua volta richiama il soffio, il principio vitale che dà la vita; si dice anche soffio vitale per indicare quello con cui Dio, nella Genesi, donò la vita ad Adamo. Da soffio, in greco psyché, deriva anche il termine psiche per indicare lo spirito. Anche questo simbolo è dotato di una forza generatrice che può diventare distruttiva come appunto può esserlo una madre negativa.
Un altro elemento che lascia propendere per una interpretazione della madre negativa è che questo vento è caldo (il calore richiama le cure materne) anzi, torrido e come tale nocivo: anche l’amore quando è eccessivo può diventare deleterio come forse quello in cui era imprigionato il Faraone.
A questo punto prendo in considerazione il numero quattro che, come si è già visto, appare indirettamente nel sogno. Questo numero è collegato direttamente al quadrato che può anche rappresentare una vera prigione affettiva. Il quadrato non si apre su niente: è il simbolo di un mondo interiore stereotipato, rivela una visione limitata ai quattro vertici. Nel caso del Faraone sono propenso a vedere nel vento quell’ansia, quella paura che potrebbero aver generato il sogno. 

Max Bonfanti, filosofo analista



Il dono, un dare gratuito


BUNCH OF FLOWERS-MAZZO DI FIORI” -160 x160- tecnica mista di Paola Giordano

Le ricorrenze religiose e laiche ri-portano in auge il tema del dono e dei suoi aspetti meno evidenti nonché la questione se sia un dare gratuito agli altri. Quando riceviamo un dono, secondo l'antropologo Marcel Mauss, autore del famoso saggio Sul dono, si genera in noi un obbligo: quello di restituire. Egli afferma che al di fuori della retorica della generosità, nel dono c'è l'interesse del donatore che vincola alla reciprocità, per esteso questo obbligo può essere anche obbedienza e fedeltà ad un leader.
Il dono è anche uno scambio all'interno della comunità. Esiste una stretta relazione tra la parola comunità, vita in comune, e dono. Comunità deriva da cum-manus cioè dal dono reciproco, ma l'etimologia sa rivelarci anche l'ambivalenza del dono insita nella parola latina manus che è insieme dono e obbligo. Una ambivalenza che curiosamente ritroviamo nella lingua inglese rispetto alla tedesca. Gift con cui gli anglosassoni indicano il dono, assume un significato opposto in tedesco che vuol dire veleno. La parola dono ritengo sia di per se stessa una contraddizione, l'enigmistica lo conferma con la sciarada: dono è composta da do + no. Ti do qualcosa ed allo stesso tempo lo nego, quindi non te lo do, nascondendo così una chiara ambivalenza.
Prendendo spunto dall'antropologo Mauss, il filosofo Jaques Derrida va oltre e aggiunge, sulle basi di quanto delineato fino ad ora, che il dono come lo concepiamo è impossibile. Vorremmo infatti che il dono avesse la caratteristiche della gratuità e che quindi fosse offerto per generosità e affetto, ma non è così. Il dono chiede qualcosa in cambio, qualcosa di materiale o simbolico. Il dono infatti deve essere ricambiato e per questo richiede una forma di restituzione, materiale o simbolica: deve essere reso con un altro dono ed ha bisogno del riconoscimento del donatore come chi offre qualcosa a qualcuno. Chi riceve è consapevole di aver contratto un debito, il dono crea quindi un vincolo e proprio per questo, secondo Derrida, smentisce se stesso.
Non ci resta che pensare al donare come dare qualcosa a qualcuno che amiamo e in questo ambito possiamo cercare di individuare il dono come gratuità.
Il regalo parla di noi, se fatto accontentando i gusti di chi amiamo diventa un modo per metterci in contatto con la sua parte più intima. Qual è il dono più bello? Donare qualcosa di noi. Il donare noi stessi è un evento interiore; lo possiamo fare ad esempio aiutando chi ha bisogno. Il dono più bello, parlando invece di oggetti legati alle ricorrenze, è fare nel senso di creare qualcosa con le nostre mani: possiamo, a seconda delle capacità e possibilità, realizzare un oggetto unico e donarlo a chi vogliamo bene. Da bambini a scuola ognuno di noi ha costruito i cosiddetti lavoretti: un porta matite utilizzando le mollette da bucato, una rosa con la plastilina, un vassoio per le tazzine realizzando una tavoletta di legno intagliato. Oggi possiamo cucinare una torta, costruire un centro tavola con le candele e mille altri piccoli o grandi oggetti: l'importante che siano nostri. Sono questi i doni più belli da donare a chi li sa apprezzare e che portano in sé la gratuità. Chi li riceve, e questo è fondamentale, deve possedere una sensibilità d'animo utile per comprendere il nostro offrirci: bello proprio perché lo abbiamo costruito noi, impegnando fantasia, lavoro e ricerca per soddisfare il gusto dell'altro. Una delle regole base del dono è che piaccia all'altro e non a noi. Donare è una parte di noi-che-si-fa-dono, un qualcosa di non materiale che si manifesta nell'oggetto, un movimento interiore che si materializza nell'incontro con l'altro: facendoci dono usciamo dalla logica dell'oggetto da ricambiare. Noi siamo unici ed donandoci mettiamo in gioco il produrre che solo l'amore come forza generativa sa farci creare, nessuno dovrebbe sentirsi in obbligo perché questo genere di dono è svincolato dalla moneta. I regali acquistati, gli oggetti con cui ci doniamo, non sono però da eliminare, se scegliamo qualcosa che all'altro piace moltissimo, la sua felicità nel ricevere, che esprime con gioia, lo allontana dalla logica del do ut des perché il nostro amore lo accompagna alla gratuità del dono.
E se ci accorgiamo che l'altro non sa apprezzare il nostro operato? E se malignamente pensa che il nostro dono auto-prodotto sia solo un modo per risparmiare denaro? A quel punto non regaliamo nulla, non è una persona che merita il nostro donarci. E soprattutto non conosce lo scambio gratuito tra chi si ama. Maria Giovanna Farina