Al supermercato con filosofia

Opera di Flavio Lappo

La Filosofia sa essere lungimirante, chi ne diventa amico acquisisce una forma mentis per esaminare la realtà e le persone in modo multiprospettico, ma soprattutto non si ferma ad osservare al di qua del proprio naso. Il filosofo deve andare oltre. Ricordando anche l'uomo di Nietzsche, non si può fermare al di qua del ponte, ma sfuggendo all'abbaglio agli ammiccamenti può superare se stesso e liberarsi di ciò che lo blocca nella mediocrità.
Questo suggerimento lo si può applicare alla quotidianità e in una rinnovata visione olistica di ciò che ci circonda possiamo diventare capaci di non farci prevaricare, a partire dalle piccole cose. Per applicare concretamente questi suggerimenti, mi lancio in una nuova avventura di filosofia pratica.
Un supermercato vicino a casa mia ha da qualche mese introdotto le casse automatiche, ora siamo nel momento del collaudo e i cassieri vacanti aiutano chi si avventura nel nuovo sistema di spesa fai da te, ma poi quei cassieri che faranno? Aumenteranno la schiera dei disoccupati? Mi sono chiesta, e da quell'istante è iniziata la mia protesta: mi rifiuto nella maniera più categorica di pagare attraverso le nuove casse! Non accetto questa imposizione anche al supermercato.
Mi è capitato che un cassiere mi invita ad accomodarmi presso il marchingegno ed io: "C'è uno sconto?" e al suo sguardo interrogativo ribatto: "Fate lavorare i clienti senza un compenso, io uso le casse tradizionali". 
Qualche cliente della mia fila ha abbozzato un breve sorriso, mentre gli altri, quelli carpiti dalle casse elettroniche, hanno continuato come se nulla fosse. Ecco, il problema di noi italiani credo sia questo: lamentarsi in privato e poi tacere quando è il momento di difendersi.
Ma la riflessione non finisce qui e lo sguardo del filosofo, quello che mi hanno insegnato i grandi a partire da Socrate, va oltre il piccolo abuso quotidiano e si spinge a considerazioni più profonde che interessano l'intero Paese. Le casse elettroniche sono un bel risparmio per la catena del supermercato, una volta ammortizzate le spese di acquisto possono eliminare il costo di qualche cassiere, ma creano nuovi disoccupati che non potranno più fare la spesa: il risparmio è solo apparente.
Questo modo di procedere è tipico del sistema ultra-liberista e improntato all'automatizzazione, certo non ci vuole un economista per ricordarcelo, ma crea una falla difficilmente controllabile e porterà meno introiti al supermercato. Il ragionamento è troppo stravagante? Forse per chi è digiuno di una sana filosofia la risposta è sì.Non ho fatto nessuna straordinaria scoperta, ma ho voluto mettere in luce la punta dell'iceberg sapendo bene che ciò avviene in tutti i campi dell'economia.
Maria Giovanna Farina


La rete e i malcostumi diffusi


Internet è sicuramente l'invenzione tecnologica degli ultimi tempi che più ha condizionato la nostra vita, modificando il modo di comunicare, di informarci, di fare acquisti e di passare il tempo libero.
Tale strumento rivoluzionario, tuttavia, dal momento della sua introduzione su larga scala, ha portato con sé molti pregiudizi e diffidenze dovuti, prevalentemente, alla difficoltà di identificare il proprio interlocutore e appurarne l'onestà. Infatti, valutare l'affidabilità di uno sconosciuto è già difficile quando lo incontriamo di persona, ma lo è ancora di più quando si cela dietro ad un computer.
La tecnologia, tuttavia, si affina sempre più con il passare del tempo, la protezione dei dati personali degli utenti è diventata una priorità assoluta, i sistemi di pagamento elettronici diventano sempre più sicuri, e quella sfera di anonimato che rendeva internet una sorta di terra di nessuno è quasi svanita. Anche le forze di polizia di tutto il mondo sono ormai attrezzate per prevenire fenomeni criminali attuati tramite internet e, quando falliscono in tale attività di prevenzione, molto spesso riescono comunque ad identificare gli autori e a portarli in un'aula di tribunale.
Le regole che governano internet si stanno quindi, sempre più, avvicinando alle regole che governano la vita reale e ormai è assodato che le cose che non si possono fare di persona non possono essere fatte neanche dal proprio computer.
Basta però fare una breve navigata in rete o seguire le notizie di cronaca per rendersi conto che c'è ancora chi, per ignoranza, per distrazione o per spavalderia, fa ancora affidamento all'impunità che garantiva l'anarchica internet degli anni 90.
Un esempio significativo è quello di due ventenni inglesi che, durante gli scontri di piazza avvenuti quest'estate in Inghilterra, inneggiavano alla violenza e al saccheggio creando “eventi” sul social network Facebook. Dopo alcuni giorni i due giovani venivano condannati a quattro anni di reclusione, anche se gli eventi da loro creati in rete di fatto non avevano mai avuto luogo. Per i giudici inglesi il comportamento tenuto dai due giovani configurava già di per sé il reato di istigazione a delinquere ed era pertanto punibile indipendentemente dal fatto che non avesse portato alle ulteriori più gravi conseguenze che i due con molta probabilità si erano prefissati.
Tecnicamente una condanna di questo tipo sarebbe possibile anche in Italia, dal momento che l'istigazione a delinquere è punita con la reclusione da sei mesi a cinque anni, anche se dubito che un giudice italiano valuti una simile situazione con tale severità.
Internet viene, quindi, considerato un possibile mezzo con il quale può essere commesso un reato e il fatto che l’autore sia comodamente seduto dietro la scrivania di casa non toglie le caratteristiche di reato ad atti penalmente rilevanti. Tale concetto, tuttavia, pare sfuggire a molti.
Visitando le pagine dei siti che hanno come scopo l’interazione fra utenti, come blog, social network, siti di condivisione di immagini e video, spesso ci si trova davanti a comportamenti che, oltre a trasgredire le più basilari regole di buona educazione, costituiscono veri e propri reati, a volte all’insaputa del soggetto stesso che li mette in atto.
Partendo dall’esempio sopra citato dei due ragazzi inglesi, che certamente non credevano di commettere un crimine, o per lo meno non così grave, si possono citare i litigi fra utenti che sfociano nel reato di ingiuria e minaccia, i casi di studenti goliardici che prendono di mira un professore spesso commettendo il reato di diffamazione, di utenti che deridono, insultano e minacciano in rete un personaggio pubblico, per non parlare dei casi di utenti che per goliardia, dispetto o con altri fini, celano la propria identità utilizzando dati personali altrui commettendo quindi il reato di sostituzione di persona. Questi sono solo alcuni esempi della violazione della legge che molti utenti commettono senza rendersene conto e senza pensare alle possibili conseguenze penali o anche solo civilistiche, ad esempio richiesta di risarcimento del danno, a cui vanno incontro.
Senza, quindi, considerare i criminali professionisti, fortunatamente in minoranza, che utilizzano consapevolmente internet come uno vero e proprio strumento del mestiere, la rete è anche frequentata da navigatori un po’ spavaldi e un po’ “bulletti” che si sentono in diritto di trasgredire le più basilari regole sociali per il solo fatto che non si espongono mettendo faccia e nome. Infatti, gran parte di questi individui non adottano tali comportamenti nella vita quotidiana e utilizzano internet come una sorta di valvola di sfogo. Per far fronte al fenomeno, molti siti hanno istituito la figura del “moderatore”, pronto ad invitare gli utenti a comportamenti corretti e ad eliminare i commenti più inappropriati. Altri siti hanno un sistema di controllo fra utenti: in pratica sono gli utenti stessi a valutare quanto un soggetto sia affidabile attribuendogli un giudizio positivo o negativo. Indipendentemente dalla possibilità, come visto del tutto concreta, che un utilizzo inappropriato di internet possa portare anche alla violazione della legge, a mio parere la questione sarebbe risolvibile applicando un po’ di buon senso ed educazione. Il rispetto e la correttezza da parte di tutti renderebbero internet più sicuro e affidabile e la polizia postale potrebbe concentrare la propria attività solamente per scovare i veri criminali. Di conseguenza ne guadagnerebbe la società intera dal momento che internet è diventato il principale centro culturale, commerciale e di informazione della nostra epoca, un luogo di incontro e di confronto, svolgendo una funzione pari a quella del Foro all’epoca degli Antichi Romani ma con dimensioni immensamente più vaste. 
Alessandro Bonfanti, dottore in Giurisprudenza

Avverbi di vita


Le mie impressioni dopo aver letto il libro di Claudia Cangemi

Le poesie sanno raccontare in pochi versi un immenso universo di pensieri, sensazioni, emozioni ed esperienze umane. Ancora una volta Claudia Cangemi, giornalista e narratrice nonché poetessa molto stimata, ci ha regalato un libro di belle poesie: Avverbi di vita (ed. La Vita Felice) con postfazione di Elisabetta Bucciarelli. Una raccolta poetica in cui l'autrice ci mostra la sua interiorità fatta di consapevoli delusioni date dal mondo e dalle persone ma dove c'è anche la riparazione e la forza di poter rinascere più forti. Poesie da leggere in solitudine ma anche molto adatte da declamare in pubblico per condividere, per sentirsi più uniti in questo mondo di solitudini contemporanee, così da far nascere un nuovo incontro con l'Altro che ci vive accanto. Forse è questo il vero compito del poetare? Vi offro una delle ultime poesie di questa raccolta, Ponte d'oro, in cui ognuno di voi potrà leggere dove sopravvive con forza la salvezza dell'Umanità. È l'amore che muove l'universo e solo la madre, reale o metaforica, sa diventare un ponte sull'eterno destino degli opposti. Perché la madre è un “avverbio di vita”, un invariabile contenitore d'amore.
Maria Giovanna Farina

Ponte d'oro

La saggezza delle madri
porta nel grembo il mondo
lo nutre e lo protegge
attraverso i millenni
accetando il destino
del più crudele e dolce
tra tutti i paradossi:
farsi ponte d'oro
all'amore che fugge.

Il significato delle nostre affermazioni


Acrilico su tela di Flavio Lappo

Accade, sovente, che si parli, si facciano inferenze e affermazioni senza soffermarsi sul reale significato di quanto viene detto, domanda e risposta. Ciò si verifica sia perché non si considerano nella giusta misura le proposizioni in oggetto e sia perché il linguaggio del parlare tanto per parlare corre su un diverso binario dal linguaggio ponderato e per ponderato intendo le parole espresse con cognizione di causa e se promettono mantengono.


Quante volte, per esempio, abbiamo detto o pensato di dire se fossi in te, se fossi in luise fossi in lei” o ancor più pretenziosamente se fossi in loro? Sicuramente tante volte ci sarà capitato almeno di pensarlo, ma ci siamo mai chiesti cosa voglia dire, cosa implichi un’asserzione del genere? Poche, se non mai. La proposizione esprime un paradosso, dice: se io potessi essere dentro di te. È evidente che nessuno può stare dentro un’altra persona se non durante la gestazione. Ma, ammettendo che ciò sia possibile ci troveremmo di fronte a due possibilità: entrare in qualcuno con tutto ciò che ci caratterizza oppure senza, come una tabula rasa, pronti ad essere accolti dall’altro.
Cosa accadrebbe nel primo caso?
Accadrebbe che i due vissuti si “impasterebbero” formando una persona diversa da entrambe col risultato che il “se fossi in te” agirebbe in un modo differente da ognuna delle due persone. Verrebbe meno il proposito dell’asserzione.
Cosa accadrebbe invece nel secondo caso?
Anche in questo caso il proposito verrebbe meno in quanto entrando come una tabula rasa si acquisirebbero in toto le caratteristiche dell’ospite. Sarebbe quindi più realistico dire semplicemente: ”se mi trovassi nella tua situazione” e, anche se i differenti vissuti  nella maggior parte dei casi poco conciliabili tra loro lasciassero poco margine ad un sostanziale cambiamento d’opinione, si potrebbe egualmente dare un suggerimento da un diverso punto di vista. Ciò accade perché il parlare tanto per parlare, si espande ogni giorno sempre più fagocitando il parlare ponderato ed così che si dice “chiamami”, “ti chiamo io” e nessuno chiama oppure “conta su di me, per te ci sarò sempre” e nel momento del bisogno non ci sarà, ma l’esempio più esplicito arriva dalla politica dove il parlare tanto per parlare salvo rare eccezioni diventa una conditio sine qua non.

Max Bonfanti, filosofo analista



Minigonne e pregiudizi

immagine tratta da Il fatto quotidiano

L’altro giorno, camminando per una via di Milano incrociai una bella ragazza in abiti decisamente succinti: una minigonna vertiginosa sopra un paio di calze a rete a larghe maglie nere ed un top che lasciava intravvedere senza troppo aiuto della fantasia un seno prosperoso e dulcis in fundo un paio di scarpe con i tacchi a spillo. Vista senza dubbio piacevole, almeno per un maschio, ma niente di più se nonché dietro di lei, a pochi metri, una donna sulla sessantina che senza farsi troppi problemi, rivolgendosi a me disse: ”Ma dove va quella lì vestita così?” io allargai le braccia come per dire “cosa vuole che ne sappia” e lei di rimando. “E poi dicono che succedono certe cose”.
Avrei voluto dirle che saranno fatti suoi, ma di fronte ad una certa mentalità schiava dei retaggi più retrivi c’è poco da dire, nulla avrebbe potuto fare cambiare idea alla pudica signora.
La frase che più mi ha dato fastidio e da pensare, è stata “e poi dicono che succedono certe cose”, soprattutto perché pronunciata da un’appartenente al sesso femminile.
Che una donna sentenzi contro sé stessa e tutta la sua categoria lo trovo assurdo eppure il maschilismo colpisce anche il cosiddetto sesso debole, anzi a volte sono proprio loro, le donne, a tirarsi la zappa sui piedi cercando di giustificare i comportamenti aggressivi del maschio.
Una donna dovrebbe poter andare in giro anche nuda senza che qualcuno ravveda in ciò un esplicito invito ad usarle violenza, tuttalpiù saranno poi gli eventuali organi preposti ad occuparsene in sede clinica.
Purtroppo molte donne arrivano a giustificare le percosse che ricevono dicendo che se il loro uomo se ne infischiasse di loro non le picchierebbe e quindi le botte sono un sintomo d’amore.
Che fare? Come sempre il problema va risolto alle radici, in primis con un’educazione familiare e scolastica improntata al rispetto delle persone e delle cose.
Non ci vorrebbe molto eppure, complici leggi, mass media, retaggi, la non messa in discussione di certi comportamenti e beceri luoghi comuni, anche le cose più semplici e naturali come dire un semplice grazie o non gettare cartacce per terra possono diventare difficili.
Max Bonfanti, filosofo


Un tiro di dadi non fa una sentenza



In un Paese dove ci sentiamo tutti allenatori quando gioca la Nazionale, tutti dei guru della finanza quando cambiamo banca o il piano tariffario del nostro cellulare, non possiamo esimerci dal nostro ruolo di “giudici supremi” ogni volta che i mass media si occupano di un processo. Non è tanto la legge in sé ad accendere gli animi, ma l’applicazione della legge che spesso suscita sdegno, ira, nostalgia del boia e della pubblica gogna e di ogni sorta di sentimento crudele nei confronti dell’imputato e dei giudici che lo hanno assolto o non lo hanno condannato a rimanere a vita nelle patrie galere. In realtà, tale atteggiamento è spesso arbitrario e determinato del fatto che l’intero apparato di norme che regolano il processo, sia civile che penale, è materia completamente oscura ai più, molto spesso anche ai giornalisti. Non intendo dire che non esistano casi di mala giustizia, quelli purtroppo ci sono sempre stati e ci saranno anche in futuro, ma l’applicazione della legge e l’emissione di una sentenza non avvengono sempre, come spesso giornali e telegiornali tendono a far credere, con un tiro di dadi.
Mi sembra, quindi, interessante soffermarmi su alcuni principi giuridici che stanno alla base del processo e che, forse, aiutano a capire meglio le controverse decisioni dei nostri giudici.
La Costituzione fornisce importanti linee guida stabilendo che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 Cost.). Quindi, anche il reo confesso deve essere assistito da un avvocato e, se non ne vuole nominare uno di fiducia, gli viene assegnato un difensore d’ufficio. Infatti, al di là del fatto che sia stato commesso o no il reato, la difesa si basa su molti altri fattori che possono influire di molto sull’esito del processo, come, ad esempio, l’intenzionalità dell’azione commessa e la capacità di intendere e di volere dell'imputato. Questi elementi e molti altri ancora possono essere correttamente interpretati solo da chi ha competenza in materia; l'assistenza di un legale è, quindi, indispensabile.
Sempre nella nostra Costituzione, l’art. 27 stabilisce che la responsabilità penale è personale: ognuno, quindi, risponde delle proprie azioni e non di quelle di amici, parenti o conviventi, salvo, comunque, il caso di concorso nella commissione del reato. Tale articolo stabilisce, inoltre, che l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva: in caso di condanna in primo grado, se viene proposto appello, o di condanna in secondo grado, se viene proposto ricorso in Cassazione, la pena inflitta non viene eseguita e l’imputato può rimanere in libertà, salvo che non siano state decise misure cautelari nei suoi confronti.
Sempre in tema di condanna penale, l’art. 533 c.p.p. stabilisce che il giudice pronuncia sentenza di condanna “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Resa famosa dai più celebri film americani, la frasetta “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stata introdotta anche nel nostro ordinamento, nel 2006 per la precisione, per rafforzare il concetto che, nel dubbio, quindi in carenza di elementi di prova, non può essere pronunciata una sentenza di condanna.
In tema di onere della prova anche il codice civile, all’art. 2697, stabilisce che “chi vuole far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”.
Sulla questione degli elementi di prova il discorso è sicuramente complesso, ma come principio generale si può dire che i fatti che stanno alla base di una decisione giudiziale, sia civile che penale, devono necessariamente essere provati; ciò, all’atto pratico, comporta non poche difficoltà. Le prove possono essere di vario tipo come le scritture, le registrazioni video o audio, le testimonianze, tuttavia, in molti casi manca la prova del fatto che è l’elemento chiave del processo. Tralasciando il complesso tema delle presunzioni e dell’inversione dell’onere della prova, concetti principalmente applicati in ambito fiscale ma non solo, può capitare che siamo certi di un nostro diritto ma, non avendone le prove, perdiamo la causa o, per tornare all’ambito penale, il criminale del secolo può ottenere l’assoluzione proprio per carenza di prove.
La responsabilità per una assoluzione inaspettata o per la perdita di una causa civile che sembrava dovesse essere vinta in partenza non può, quindi, essere a priori attribuita al giudice, che si deve esprimere solo in base agli elementi che si sono stati dimostrati dalle parti. La responsabilità, quindi, per i giudizi tanto inattesi e apparentemente ingiusti di chi è? Dei p.m. o degli avvocati che non hanno fornito al giudice tutti gli elementi per una corretta valutazione?
Dal mio punto di vista, spesso non si può trovare un responsabile, il p.m. ha un ruolo importantissimo in quanto deve fornire le prove della commissione del reato da parte dell’imputato, alla pari, nel processo civile, l’avvocato deve provare l’esistenza del diritto che il cliente vuole far valere, tuttavia, la prova diretta di un fatto, a volte, è pressoché impossibile da fornire. In questi casi si cerca di dimostrare indirettamente l’elemento “chiave”, provando altri fatti ad esso collegati e costruendo un ragionamento logico per il quale dai fatti noti si giunge al fatto ignoto. Chiaramente, non sempre il risultato è garantito, ma il giudice può fondare la propria decisione solo in base a quanto si è riusciti a dimostrare e alla logicità del ragionamento sottostante.
Per concludere, ritengo che le sentenze “ingiuste” nella gran parte dei casi non siano casi di mala giustizia, ma siano la conseguenza negativa di un sistema di norme processuali che consente l'emissione di una sentenza di condanna solo in presenza di prove certe, al fine di evitare le conseguenze ancor più negative che si verificherebbero se una sentenza potesse essere emessa anche solo in presenza di semplici indizi; in tal caso gli errori giudiziali sarebbero sicuramente molti di più. 
Alessandro Bonfanti, dottore in Giurisprudenza

Libertà…vuol dire anche dimenticarsi a casa il cellulare


La prima volta che succede vai nel panico, ti domandi se non è il caso di tornare a prenderlo, ma come fai, sei già in ritardo, c’è un traffico terribile, bisogna proprio sperare che nessuno ti cerchi questa mattina, altrimenti cosa potrà succedere? Quando arrivi a casa, invece, ti accorgi che non c’è nemmeno una chiamata e tutto sommato nemmeno tu sei morto a non cercare nessuno. In fondo sei sopravvissuto un giorno intero senza quello che ormai è diventato un prolungamento di te stesso. O meglio, un prolungamento della tua testa, della tua mente, il cellulare. Non mi dite che non vi siete accorti anche voi che da quando ci sono i cellulari abbiamo perso molto, ma molto della nostra prontezza, della nostra memoria, della nostra capacità cognitiva se vogliamo. Come quando sono state permesse in classe le calcolatrici e tutti i ragazzi hanno disimparato le tabelline. Ecco, la stessa cosa; ora non ricordiamo più nemmeno il nostro numero di telefono o quello dei nostri cari. Non voglio con questo demonizzare l’uso del cellulare, credo che non ci sia niente di male ad usare e magari cambiare spesso modello di telefonino; ma occorre stare attenti che per ognuno di noi il tutto non si tramuti in una ossessione, una compulsione, come se a tutti i costi volessimo tenere tutto sotto controllo. Personalmente io, anzi, ne voglio riconoscere l’assoluta utilità. Un’uscita notturna, soprattutto se si è donna, un’urgenza, un problema da risolvere, “ah, come facevamo quando non c’erano i telefonini?”- è una frase che sentiamo o diciamo spesso, dimenticandoci però che siamo vissuti bene ugualmente per tanto tempo. Ma ora non potremmo più farne a meno, lo so, ci hanno cambiato la vita e sicuramente l’hanno migliorata, anche se qualche danno ce lo hanno provocato. Forse ci siamo un po’ intossicati dall’uso esagerato, siamo un po’ regrediti intellettualmente, perché non facciamo più il minimo sforzo per studiare, capire, cercare, ricordare… è tutto lì bello pronto sul nostro smartphone, a portata di mano o di tasca. Dico questo perché lo valuto spesso su me stessa: io adoro ricevere questo regalo tecnologico che mi fa ogni volta perdere ore di sonno finché non ne imparo tutti i segreti. In questo preciso momento ne ho uno che fa di tutto e di più se lo lascio fare: mi avverte, mi parla, ha provato a svegliarmi di notte per dirmi che la batteria era carica, con mio sommo spavento, potete immaginare, dato che sapevo di non avere nessuno in casa e quindi nessuno che mi potesse parlare. Insomma, credo che se gli chiedessi un cappuccino s’ingegnerebbe per farmelo. È proprio un gran telefono. Ma per l’amore assoluto che provo per la mia libertà, ho deciso che da questo pur utilissimo e validissimo strumento, non voglio farmi condizionare. Intanto vedo davvero sempre più persone e non solo giovani, che non lo abbandonano un attimo: a tavola (il galateo qui avrebbe qualcosa da dire), in auto, passeggiando a piedi. Convengo che in alcune occasioni si possa aspettare una risposta, attendere un appuntamento, ma non credo che cada il mondo se non siamo tempestivi nel rispondere ad una chiamata, ad un sms. Non credo nemmeno sia una cosa sana che tutti sappiano esattamente dove mi trovo in quel momento o in quel giorno, siamo già controllati e spiati ovunque!  Così, personalmente, quando ho sistemato le cose doverose da fare, aggiustato le relazioni importanti, esco, e guarda un po’, a volte ‘dimentico’ il cellulare. Se all’inizio questo un certo turbamento, una certa insicurezza me lo provocava, ora è un profondo senso di libertà che provo. Certo ci si deve arrivare gradatamente, ma poi, che soddisfazione! Non voglio darvi suggerimenti, lo dovrei fare prima con me stessa, ma spegnerlo ogni tanto, dimenticarlo in auto qualche volta, non può che insegnarci a dosarne l’uso. In fondo avremmo un po’ di frenesia in meno.                      
p.s. - John B. scrive su Giornalettismo: “20 milioni di italiani posseggono un telefonino di ultima generazione e in Italia sono attive più di 150 SIM card ogni 100 abitanti: si può agevolmente concludere che il telefonino contende all’orologio da polso il primato dell’oggetto più “indossato” dagli italiani”. Si racconta anche del loro aumento tra poveri e anziani e le schede ricaricabili hanno visto salire il mercato dell’11%.

Giuliana Pedroli








Il tempo imperfetto

Disegno a matita di Flavio Lappo

Quale epoca della storia non è stata imperfetta? Non credo ci sia stato un attimo della vita dell'essere umano in cui l'imperfezione non si sia posta come caratteristica costante. Forse nient'altro è così fedele come l'imperfezione! Non ce la scrolleremo mai di dosso perché nulla è così costante come l'imperfezione. Ci dà molto fastidio questa realtà e così facciamo di tutto per mostrare il contrario: quando ci riprendono in una foto o in un video siamo ben pettinati, vestiti alla moda, sorridenti. Insomma, quasi perfetti. Ma il tempo imperfetto è anche un modo verbale e fin dalla scuola ci siamo chiesti perché diavolo lo abbiano chiamato così. Semplicemente è un passato di cui non si può ben definire il momento, non è appena passato e neppure passato da tanto tempo: è imperfetto, irrimediabilmente imperfetto come noi. Solo chi accetta questa imperfetta realtà può pensare di migliorare per intraprendere la strada verso la perfezione che mai raggiungerà, ma che riuscirà ad intravedere. La perfezione non ci appartiene ma la possiamo conoscere ed osservare, è un po' come cercare di raggiungere il punto più azzurro del cielo: lo possiamo ammirare ma mai toccare. Chi se ne importa, il fatto di non possedere qualcosa non sempre è un male. Se abbiamo la possibilità di usufruire di una bellissima casa senza che sia nostra, siamo nulla tenenti ma non dobbiamo pagare le tasse. Se siamo imperfetti abbiamo il costante desiderio di perfezione, ma non il problema di pagare l'alto alto prezzo per mantenere in vita l'impossibile...

Maria Giovanna Farina