Cos'è la fortuna


Ci definiamo fortunati o sfortunati a seconda degli esiti delle nostre vicende quotidiane, ma questo modo di valutare i risultati può a volte trasformarsi in qualcosa che blocca il nostro cammino. È stato Aristotele ad analizzare per primo la fortuna sostenendo che si può parlare di caso fortuito solo quando ciò che accade potrebbe essere frutto di una scelta, ma non lo è. In che senso? Ad esempio incontro qualcuno che mi deve dei soldi: potevo andare da lui e chiederli, ma non lo ho fatto. In questo caso ho avuto fortuna, il caso me lo ha fatto incontrare. Nella vita possiamo trovarci per caso al posto giusto e ciò può significare nuove prospettive di lavoro, un nuovo amore e in generale nuovi orizzonti. Stiamo parlando di fortuna come caso e non di fortuna come destino, ma allora esiste la fortuna? Sì, se noi la cerchiamo con ordine, criterio e buona volontà. Non dobbiamo cioè dimenticare le nostre capacità e all’occasione propizia sapremo riconoscerla e sfruttarla se non ci abbandoneremo alla cieca ricerca di una fortuna qualsiasi. Naturalmente la fortuna non può far tutto da sola:
1) se abbiamo incontrato la persona che fa per noi non continuiamo a lamentarci per piccole inezie, nessuno è perfetto cerchiamo di guardare la persona nel suo insieme
2) se siamo guariti perfettamente da una malattia seria, riteniamoci fortunati e stiamo più attenti ad aver cura della buona salute
3) se abbiamo ereditato del denaro non sciupiamolo perché questo è voltar le spalle alla fortuna che non esiste come entità reale, ma esiste come buona occasione che prima o poi capita a tutti
Spesso le nostre lamentele nascono dal mancato impegno nella ricerca e nel riconoscimento della buona occasione che un po’ scaramanticamente chiamiamo fortuna. 
Maria Giovanna Farina

Attento con chi parli


A volte ci si lamenta della mancanza di riservatezza da parte degli altri, non facciamo in tempo a confidare un piccolo segreto che già ha fatto il giro del quartiere. Spesso la causa di questo spiacevole inconveniente siamo noi stessi: ci fidiamo troppo dell’altrui discrezione. Come evitare di cadere in questa trabocchetto? Innanzi tutto prima di fidarsi di qualcuno è saggio prendere le giuste precauzioni magari con uno stratagemma: sottoponiamo il nostro confidente ad un esame di fiducia raccontandogli un fatto interessante ma completamente falso e stiamo a vedere. Se col passare del tempo questo argomento non è stato diffuso significa che il nostro interlocutore ha buone possibilità di essere un tipo discreto. Al di là delle indagini, non dobbiamo mai scordare la natura dell’essere umano che è quella di essere un raccontatore di storie e quando non ne ha di personali usa quelle degli altri. E poi alcune notizie sono più suggestive delle altre ed il bisogno di raccontare si unisce a quello di primeggiare: sono il primo ad aver appreso che tizio ha bruciato il patrimonio in borsa e l’andarlo a riferire mi eleva come se fossi il detentore di uno scoop giornalistico. Inoltre il “mors tua vita mea”, che fa parte da sempre della nostra parte più nascosta, mi permette di screditare un mio simile attraverso notizie che disonorano e di avere un rivale in meno nella quotidianità. Il “mors tua vita mea” va preso in considerazione in questo caso in modo di simbolico, parliamo di reputazione, e non come una eliminazione fisica di un mio concorrente. Un’altra caratteristica dell’essere umano è quella di colorire il racconto con l’aggiunta di nuovi particolari che vanno ad ingigantire la notizia. Concludiamo ricordando che la comunicazione orale si presta alla distorsione già di per sé e possiamo dimostrarlo con un semplice giochino, quello del passa parola, da fare in compagnia. Ricordate il gioco del telefono senza fili? L’ultimo a ricevere la comunicazione dice cosa gli è arrivato: il più delle volte sarà una parola che non c’entra nulla con quella iniziale. Se poi aggiungiamo ed interpretiamo la comunicazione, figuriamoci cosa salta fuori! 
Maria Giovanna Farina

Non siamo soli, ci sono anche gli altri



Non siamo soli, ci sono anche gli altri” è una frase che fa bella mostra di sé nel mio studio. Dice un’ovvietà ma solo ad un prima lettura, a quella più evidente, riflettendo invece sul suo significato più profondo possiamo considerare questa affermazione la regola numero uno del vivere in mezzo agli altri rispettando i loro spazi, ma anche per essere rispettati a nostra volta.
Facciamo qualche esempio. Sono le due di notte e qualcuno sta schiamazzando sulle scale del nostro condominio: si sta congedando dagli amici e, si sa, quando si è allegri il tono della voce è più difficile da controllare. Ma noi stavamo dormendo, mannaggia! Come far notare agli altri che ci stanno mancando di rispetto? Ecco come difenderci con un esempio più comune. Siamo al supermercato e la persona davanti a noi sta pagando i suoi acquisti con una certa calma e, incurante della nostra presenza, cerca con tutta comodità la sua card che a volte non funziona, oppure si attarda a riporre i soldi e poi, magari, dà una controllata al conto: intanto i nostri acquisti si accatastano sul banco della cassa. Tutto questo mentre noi non possiamo riporli nel sacchetto, ma il nostro “amico della spesa” non pensa di lasciarci passare, no, nemmeno gli frulla per la testa e rimane lì inchiodato in mezzo al passaggio. L’attesa ci innervosisce e così il momento degli acquisti, che potrebbe anche essere una piacevole parentesi, si trasforma in un tormento. L’innervosirsi senza poter risolvere la questione può provocare esplosioni di collera: “Ma allora ti togli dalle scatole” è la frase che più o meno potrebbe pronunciare chi si trova in una simile situazione, frase che suona come offensiva e fa passare dalla parte del torto chi ha ragione. Se invece con calma, ponendoci da filosofi, pronunciamo: “Non siamo soli, ci sono anche gli altri”, in questo caso non saremo noi ad innervosirci ma, forse, sarà l’altro a provare il disagio di chi si sente colto in fallo. C’è la possibilità che il nostro interlocutore reagisca maleducatamente perché abbiamo sottolineato il suo comportamento errato e non accetti di essere ripreso, allora non ci resta che rallegrarci con noi stessi per aver innervosito chi ci aveva procurato la stessa sgradevole sensazione. 

Maria Giovanna Farina

Quando la festa finisce


Quando finisce la festa, quando cala il sipario sul palcoscenico o quando salutiamo una persona a cui siamo affezionati perché sono terminate le vacanze ed ognuno torna alle proprie occupazioni, allora spesso proviamo una sensazione poco piacevole che comunemente si definisce tristezza. Si parla di forme depressive post-vacanze, spesso ancor prima che siano terminate si è spinti a preoccuparsi dei chili di troppo del dopo panettone: smettiamola di considerare la cosa da questo unico punto di vista. Vivere una situazione piacevole come stare in compagnia e concedersi gratificazioni alimentari non può e non deve diventare un ulteriore problema. L’essere umano è un contenitore da riempire di amore, condivisione, ma anche di cose molto più concrete come il cibo e il sesso. Al di là dei casi esagerati al limite del patologico, tutto ciò che colma i nostri vuoti è utile per renderci la vita migliore e non per farci troppi problemi subito dopo. Se una vacanza, una festa o uno spettacolo ci lasciano un perdurante senso di malinconia, significa che c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo iniziare a preoccuparci: forse non ci siamo divertiti e abbiamo partecipato per abitudine o convenienza. Forse la situazione piacevole ha stimolato la nascita della consapevolezza di certe nostre mancanze e, avendole viste nella loro crudezza, ora stiamo male per l’impossibilità di trovare una via d’uscita immediata. Tutto scorre, diceva il filosofo Eraclito secondo gli antichi, tutto passa e le cose piacevoli torneranno ed è proprio questa caratteristica a farci apprezzare i momenti di festa: se fosse tutti giorni Natale o il momento per una crociera non potremmo apprezzare nulla con intensità. 
Maria Giovanna Farina



Il "potere" della bellezza


Specchio delle mie brame che è la più bella del reame?” “Sei tu mia regina!” Al di là della fiaba che tutti conosciamo questo breve dialogo di Grimilde con se stessa ci indica il potere della bellezza e la lotta per mantenere il primato. Una lotta culturale che ci viene somministrata con le fiabe insieme al latte, fin dall'infanzia: non c'è da stupirci se poi dall'adolescenza e, ahimè a volte ancor prima, entriamo nella spirale trituratrice di una bellezza agognata e bramata più di ogni altra cosa. Fermiamoci a riflettere un attimo: d'accordo la bellezza sfonda molte porte, ma non possiamo concentrarci solo su questo soprattutto se non siamo delle bellone. Devo per forza dirvi che essere belle non è tutto, che la bellezza è soggettiva ed effimera, che non esistono canoni prestabiliti a tavolino...ma questo apparentemente non sembra vero e le giovani donne che si affacciano alla vita devono fare i conti con tutto ciò. Allora vi racconto una storia, una storia vera e non quella di Biancaneve. C'era una volta una ragazza che nell'adolescenza si innamora di un bellissimo ragazzo, lui naturalmente più grande e bellissimo non la nota nemmeno e le sue accompagnatrici sono, tanto per fare il quadro completo, solo delle Barbie viventi. Lei soffre, poi si rassegna e pensa che mai potrà destare in lui il minimo interesse, ma tutto cambia quando pur non essendo diventata bella lo conquista. Come ha fatto? Ha valorizzato se stessa e, acquisendo fiducia nelle proprie risorse, ha imparato che ogni donna deve prima lavorare per far emergere la propria personale bellezza attraverso trucco e abbigliamento, poi, soprattutto, non fermarsi solo sulle misure e sul nasino: può se-durre con l'intelligenza. Naturalmente se ha voglia di usarla. 
Maria Giovanna Farina