Partiamo
con la spiegazione sulla scelta del titolo: tutti noi, nel bene o nel
male, in modo giusto o in modo sbagliato, istruiti o ignoranti,
pensiamo. Anche se la maggior parte delle volte non sembra. Qualunque
azione, prima di essere eseguita, deve essere prodotta dalla nostra
mente, sia essa ragionata o istintiva. Noi, in quanto specie animale,
abbiamo un deficit nella nostra coscienza di uomo. Nell’età del
“miracolo greco”, pensare era una delle attività che
riscuotevano il maggior interesse all’interno delle polis. I grandi
pensatori non avevano bisogno di fare lavori manuali per poter
vivere, erano costantemente invitati a banchetti pubblici e privati,
oppure, come nel caso di Aristotele, facevano da precettori ai figli
delle famiglie più importanti (Aristotele alla corte di Filippo il
macedone ha seguito l’istruzione di Alessandro Magno). Ma, ahimè,
i nostri antenati non sono riusciti a trasmetterci questo bellissimo
retaggio. Nel 400 a.C. le discussioni potevano durare delle giornate
intere, noi non riusciamo a farle durare più di qualche minuto. Le
discussioni devono essere come un fuoco, costantemente alimentato dal
sapere e soprattutto dalla curiosità. La voglia di conoscere in modo
viscerale le motivazioni sia di chi la pensa come noi sia di chi non
la pensa come noi. Due persone magari sono arrivate alla stessa
soluzione ma percorrendo ragionamenti differenti. Il fine ultimo
degli scambi d’idee non dev’essere quello di dimostrare la
propria ragione sul proprio avversario. Per una persona virtuosa
tutto ciò è superfluo, è sufficiente la soddisfazione di aver
avuto modo di esporre nel miglior modo possibile le proprie idee e,
soprattutto, di aver fatto altrettanto con il proprio interlocutore.
Molti non considerano questo aspetto durante un dialogo, il saper
mettere a proprio agio la nostra controparte. Noi facciamo l’opposto,
cerchiamo il più possibile di metterlo in difficoltà, appena inizia
ad esporre le proprie ragioni è bersaglio continuo di nostre
interruzioni, di nostre puntualizzazioni, che detto onestamente, sono
fini a loro stesse. Tutto ciò non lo aiuta minimamente, lo porta a
perdere il filo del suo discorso, a farlo continuamente divagare per
“difendersi” dalle nostre critiche. Insomma, alla fine non si
capirà nulla di quello che dirà e questo non perché la sua tesi
sia sbagliata, ma per le nostre interferenze, per la nostra paura di
avere torto. Il fine ultimo del dialogo non è il sovrastare a
vicenda le idee, anche perché queste ultime con il tempo cambiano,
ma il dimostrare a se stessi che tipo di persona siamo. Primo
obiettivo dev’essere l’antico motto dell’oracolo di Delfi, poi
approfondito da Socrate: “Conosci te stesso”. Questo, credo, sia
il fine di un’ottima discussione e il primo passo per poter pensare
come un uomo che ha coscienza di sé. Ora, tutto è molto diverso
rispetto a qualche millennio fa. La frenesia della vita ha portato a
togliere tempo a moltissime cose per avere il tempo di farne altre.
Abbiamo tolto molto tempo alle cose fondamentali, alla famiglia, ai
figli e al dialogo con loro, aspetti di vitale importanza per la
crescita di tutta la famiglia. Basta guardarsi intorno. In pullman,
in metro, in treno, tutti abbiamo uno smartphone in mano, oppure
madri e padri che per non far piangere il bambino gli piazzano
davanti il tablet con i cartoni animati. Il nostro obiettivo adesso è
questo: pensare di vivere tranquilli e basta. Sbagliato. Un bambino
vuol dire lasciare a casa il telefono e rimboccarsi le maniche. Se
piange un motivo c’è e non è il bambino ad essere indemoniato,
sono io genitore che non capisco nulla dei bisogni di mio figlio.
Rousseau, in uno dei suoi libri più famosi, l’Emilio, parla di un
bambino che ha bisogno di crescere all’aperto, di giocare e fare le
sue esperienze naturali liberamente senza troppe interferenze. È
questo che aiuta a creare la propria coscienza di essere umano,
pensante. Invece i nostri bambini sono, purtroppo, l’opposto. Cari
genitori bisogna svegliarsi, non si è perfetti, tutt’altro, si
fanno tantissimi errori durante la crescita della prole, ma bisogna
rendersene conto ed ammettere di avere bisogno d’aiuto, pertanto la
miglior cura è parlare, dialogare, scambiarsi informazioni utili,
reali ed empiriche, non digitali e fasulle! Quello che prima era una
discussione figlia di anni ed anni di studi e riflessioni adesso cade
in un botta e risposta fatto di argomentazioni futili e troppo spesso
basate su notizie false che nemmeno leggiamo più, perché ci basta
leggere solo il titolo. Ecco il cuore del nostro problema: invece di
prenderci del tempo nella ricerca di prove reali, tangibili, scritte
su libri di testo o manuali, ci accontentiamo troppo spesso della
prima notizia che la rete ci propone. Ma torniamo al pensiero. Ciò
che una volta era un piacere per l’uomo greco e, in parte anche
romano, adesso è considerato faticoso dall’uomo contemporaneo. È
come se ora non accettassimo più
di
sprecare fatiche per
pensare. Non vediamo altro che il moltiplicarsi in modo esponenziale
dei nostri problemi e tutto ciò ci paralizza, invece che essere
stimolati a trovare una soluzione per risolverli. Ecco a che punto
siamo arrivati. Crediamo veramente che si viva meglio senza pensare,
e già questo modo di ragionare è inconcepibile. Quando pensiamo,
ragioniamo, è come se facessimo le polveri alla nostra mente. Se
facciamo fatica e solleviamo tanta polvere è solo perché è tanto
tempo che non usiamo più la testa. Ma quando si fanno le pulizie e
si solleva tanta polvere noi sappiamo che pulendo, piano piano i
risultati si ottengono. Invece per il pensiero no. Appena iniziamo a
ragionare ci assalgono subito mille pensieri e al posto che
continuare a pensare iniziando a fare pulizia di tutta la spazzatura,
ci paralizziamo. Vorremmo tornare al punto di partenza, non avremmo
mai voluto sollevare quel polverone. Questo siamo noi, questo è il
non uomo pensante. Una specie che non accetta volontariamente la
cultura e accetta volontariamente di non ergersi a uomo, così non si
accorge che così si rifiuta di vivere.
Daniele
Detratto, studente di filosofia
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