Quando finiscono le vacanze

Disegno a matita di Flavio Lappo

Quando finisce la festa, quando cala il sipario sul palcoscenico o quando salutiamo una persona a cui siamo affezionati perché sono terminate le vacanze ed ognuno torna alle proprie occupazioni, allora spesso proviamo una sensazione poco piacevole che comunemente si definisce tristezza. Si parla di forme depressive post-vacanze, spesso ancor prima che siano terminate si è spinti a preoccuparsi dei chili di troppo del dopo pranzi con gli amici delle vacanze: smettiamola di considerare la cosa da questo unico punto di vista. Vivere una situazione piacevole come stare in compagnia e concedersi gratificazioni alimentari non può e non deve diventare un ulteriore problema. L’essere umano è un contenitore da riempire di amore, condivisione, ma anche di cose molto più concrete come il cibo e il sesso. Al di là dei casi esagerati al limite del patologico, tutto ciò che colma i nostri vuoti è utile per renderci la vita migliore e non per farci troppi problemi subito dopo. Se una vacanza, una festa o uno spettacolo ci lasciano un perdurante senso di malinconia, significa che c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo iniziare a preoccuparci: forse non ci siamo divertiti e abbiamo partecipato per abitudine o convenienza. Forse la situazione piacevole ha stimolato la nascita della consapevolezza di certe nostre mancanze e, avendole viste nella loro crudezza, ora stiamo male per l’impossibilità di trovare una via d’uscita immediata. Tutto scorre, diceva il filosofo Eraclito, tutto passa e, aggiungo io, le cose piacevoli torneranno ed è proprio questa caratteristica a farci apprezzare i momenti di festa: se fosse tutti giorni Natale o il momento per una crociera non potremmo apprezzare nulla con intensità.

Maria Giovanna Farina

Il tempo è adesso


Acrilico su tela di Flavio Lappo
Pian piano le vacanze volgono al termine un po' per tutti. Chi passa, o è passato, da Roma può incontrare un monumento filosofico: la colonna di Marco Aurelio innalzata per celebrare, dopo la sua morte, le vittorie dell'imperatore romano Marco Aurelio (121-180). La colonna alta circa trenta metri, fu posta in una piazza corrispondente all'odierna piazza Colonna dove ha sede Palazzo Chigi. Il monumento è coperto di bassorilievi che rappresentano scene delle battaglie di Marco Aurelio, l'imperatore filosofo costretto dal suo incarico a governare e a diventare guerriero: tutto a discapito della tanto amata filosofia di cui prediligeva lo Stoicismo fautore di una vita austera. Portò comunque avanti la sua missione cercando di migliorare la vita dei cittadini e degli schiavi. La Colonna ci ricorda lui e in particolare desidero soffermarmi su un suo scritto considerato un testamento spirituale: “Dialoghi con se stesso”, dove rende onore a tutti coloro che gli sono vissuti accanto, anche ad un amico quando gli insegnò che “parlando o scrivendo una lettera a qualcuno, non dire spesso e senza una ragione stringente -non ho tempo-”. Non ho tempo, è un'affermazione molto diffusa anche oggi, non è una novità della vita contemporanea, è un escamotage, un modo per sfuggire dagli obblighi e pensare solo a se stessi. Ai tempi dei Romani la vita aveva sicuramente dei ritmi più a misura d'uomo rispetto ai nostri, questo ci fa comprendere che la frase è una scusa che non va mai fuori moda. Dire non ho tempo non ha significato se non si completa con coraggio la frase dicendo: “Non ho tempo per te”. Esiste uno spazio che noi riempiamo di fatti ed avvenimenti seguendo un ordine di priorità (viene prima il tempo per il lavoro rispetto a quello per fare la spesa), se affermiamo di non avere tempo, implicitamente poniamo l'interlocutore in una posizione svalutativa, è come se gli dicessimo: “Tu vali meno di qualcun altro, per te non ho spazio”. Figuriamoci se questa affermazione è indirizzata ad un figlio o ad una persona cara. Perciò non scordiamo un filosofo che dette valore “all'avere tempo”, non scordiamo che il tempo è adesso, rimandare significa perdere il momento attuale senza offrire la nostra attenzione a chi amiamo in cambio di un incerto domani in cui, forse, non avremo ancora tempo!
Maria Giovanna Farina

Il valore di un grazie

Acrilico su tela di Flavio Lappo

Grazie è un breve racconto scritto da Daniel Pennac per il teatro, parla di un artista alle prese con un discorso di ringraziamento per l’imminente premiazione, sta per essere premiato per “l'intera sua opera”: il testo ci fornisce l'opportunità di riflettere sul significato del grazie anche dal punto di vista filosofico tenendoci lontani dal ringraziamento formale. Non mi soffermo troppo sulla trama, che si può riassumere in una disquisizione a tratti nevrotica su a chi deve essere rivolto il ringraziamento, ma invito a concentrarsi sul grazie e sul suo valore nella nostra vita. Nel libro viene affrontato il ringraziamento tenendo conto quali siano le persone che più lo meritano, noi cerchiamo di risalire al significato originario di questa breve parola. Ringraziare è prima di tutto un atto di umiltà, pronunciando un grazie riconosco il valore dell'altro nella mia vita, del suo esserne parte in causa. Il grazie ci mette in questo modo in una posizione di inferiorità, un tempo il ringraziare si accompagnava all'inchino di fronte al sovrano che per qualche motivo dava un'opportunità, una chance di salvezza o faceva l'onore di qualche privilegio. Chi sa ringraziare con il profondo del cuore è una persona riconoscente e che ha memoria delle cose. “Non scorderò mai il favore che mi hai fatto”, non è questa una frase per ringraziare ora e per sempre chi ci ha fatto un favore? Sulla scia del filosofo Martin Heidegger possiamo affermare che la capacità di ringraziare nasce dal ri-conoscimento di sé: chi sa dire grazie è in grado di andare incontro all'altro con semplicità perché non ha bisogno di imporsi, sa già di essere una persona di valore. Queste sono le premesse per leggere il breve racconto di Pennac, vale a dire con un atteggiamento critico verso il protagonista che, nonostante le sue profonde riflessioni, non ha risolto granché. Possiamo provarci noi. Ai lettori rimane lo spunto per riflettere ed elaborare l’importanza del ringraziamento e per chi volesse scivolare verso la musica leggera propongo l'ascolto e la lettura di una vecchia canzone di Renato Zero: “Grazie a te” dall'album Tregua, 1980. Troverete nel testo ciò che si può intendere, con parole semplici ma incisive, per vero ringraziamento. 
Maria Giovanna Farina


Non c'è più rispetto


Acrilico su tela di Flavio Lappo

Ponti che crollano, strade con buchi grandi come i crateri di un vulcano, strade che si sgretolano sotto la pioggia battente, torrenti che straripano improvvisamente: tutto ciò è anche l'Italia contemporanea. Un Paese dove l'incuria è sempre più presente e il degrado va di pari passo con quello culturale. Sì, perché l'involuzione culturale che è fatta di maleducazione, mancanza di senso civico, discriminazione verso il diverso, accanimento sui più deboli e non solo di incuria, è specchio di decadenza. Ma fino a che punto dovremo giungere con la decadenza? Le grandi civiltà sono nate cullando la cultura e le arti: cosa significa essere civili se non vivere rispettando tutto ciò che ci circonda, persone, oggetti, opere d'arte, idee altrui. Il rispetto credo sia la parola chiave, oggi non si insegna il rispetto, termine dimenticato e presente solo nel dizionario come lettera morta. Se il rispetto fosse materia viva non assisteremmo a continui agghiaccianti fatti di cronaca dai femminicidi, agli atti di bullismo, dai buchi nell'asfalto ai ponti che crollano; se i ponti che crollano sono metafora dei rapporti umani che si sgretolano, il ponte ha il compito di collegare due luoghi altrimenti difficilmente raggiungibili, non dimentichiamo che se crollano è perché chi doveva controllarli non lo ha fatto mancando di rispetto alle migliaia di persone che su quel ponte ci transitano.
Trovare una soluzione al degrado è possibile se ognuno di noi decidesse di lavorare per un riscatto collettivo fatto prima di tutto di rifiuto verso la mancanza di rispetto, a partire dalle piccole cose quotidiane. Non possiamo in un gesto cambiare il mondo ma abbiamo la capacità di dare il via ad un percorso opposto alla decadenza iniziando a rispettare con convinzione l'altro senza scordare noi stessi. Ci rispettiamo davvero? O ci lasciamo prevaricare perché abbiamo abbandonato la forza di lottare? Quando qualcuno butta una cartaccia a terra o mette le scarpe sporche sui sedili di un autobus manca di rispetto a tutta la collettività e noi siamo parte di quella collettività violata. 
Maria Giovanna Farina




La maturità ti fa bella



Acrilico su tela di Flavio Lappo
Quanti anni hai? Alle donne non si chiede l'età! Perché? Mi sono sempre chiesta, poi crescendo ho capito che dà fastidio dichiarare le proprie primavere: se ne dimostri meno tutto va liscio, ma se te ne danno qualcuna in più allora non lo sopporti. L'inciampo affonda le radici nel rapporto con l'altro sesso: l'uomo. Per lui, si sa, i primi capelli bianchi sono sinonimo di fascino, per le donne sono solamente la vecchiaia incombente. Per lui un po' di pancia significa dare sicurezza alle giovani, per le donne si tratta solo di sovrappeso. Potremmo fare un lungo elenco. Ma ci siamo mai chieste chi ha inventato queste bazzecole? Non c'è bisogno di rispondere: lo sappiamo benissimo. Allo stesso tempo, chi ha consentito a questa “leggenda” di farsi verità? Le donne, con un atteggiamento tra il sornione e il civettuolo hanno per secoli sorriso e nascosto la loro età: basta, ora cerchiamo di smantellare lo stereotipo ricorrendo all'intelligenza. In un epoca in cui si diventa mamme anche oltre l'età limite e ci si trova il compagno più giovane, sarebbe anche il momento di dire al mondo la nostra età, è un passo significativo verso la parità. Come si può far ancora vivere questa manfrina! Inizio io: ho 56 anni e tu? Vogliamo fare una catena di solidarietà femminile? Anche ai maschi capita di dimostrare più anni di quelli anagrafici eppure loro se lo possono permettere, così si vuol far credere. Gli uomini che leggeranno questo articolo non si sentano attaccati da un neo femminismo filosofico, ma prendano coscienza che siamo alla pari anche in rapporto al tempo che passa. E poi il tempo non esiste, è una convenzione umana per darsi degli appuntamenti...non sono “impazzita”, credo sia solo giunto il tempo di dare un taglio netto a certe idee che si ripercuotono contro l'evoluzione umana di cui la donna è una parte importante. E allora è giunto il momento di un bel coming-out anagrafico per tutte, coraggio diamo il buon esempio alle giovanissime!

Maria Giovanna Farina

Sviluppa la tua bellezza


Specchio delle mie brame che è la più bella del reame?” “Sei tu mia regina!” Al di là della fiaba che tutti conosciamo questo breve dialogo di Grimilde con se stessa ci indica il potere della bellezza e la lotta per mantenere il primato. Una lotta culturale che ci viene somministrata con le fiabe insieme al latte, fin dall'infanzia: non c'è da stupirci se poi dall'adolescenza e, ahimè a volte ancor prima, entriamo nella spirale trituratrice di una bellezza agognata e bramata più di ogni altra cosa. Fermiamoci a riflettere un attimo: d'accordo la bellezza sfonda molte porte, ma non possiamo concentrarci solo su questo soprattutto se non siamo delle bellone. Devo per forza dirvi che essere belle non è tutto, che la bellezza è soggettiva ed effimera, che non esistono canoni prestabiliti a tavolino...ma questo apparentemente non sembra vero e le giovani donne che si affacciano alla vita devono fare i conti con tutto ciò. Allora vi racconto una storia, una storia vera e non quella di Biancaneve. C'era una volta una ragazza che nell'adolescenza si innamora di un bellissimo ragazzo, lui naturalmente più grande e bellissimo non la nota nemmeno e le sue accompagnatrici sono, tanto per fare il quadro completo, solo delle Barbie viventi. Lei soffre, poi si rassegna e pensa che mai potrà destare in lui il minimo interesse, ma tutto cambia quando pur non essendo diventata bella lo conquista. Come ha fatto? Ha valorizzato se stessa e, acquisendo fiducia nelle proprie risorse, ha imparato che ogni donna deve prima lavorare e valorizzare la propria personale bellezza attraverso trucco e abbigliamento, poi, soprattutto, non fermarsi solo sulle misure e sul nasino: può se-durre con l'intelligenza. Naturalmente se ha voglia di usarla.
Maria Giovanna Farina



E' interessato a te? Comprendilo dai suoi gesti



Per comunicare bisogna stabilire un codice tra noi e il nostro interlocutore: parole, scrittura, alfabeto Morse, segnali di fumo... Ci sono quattro principi fondamentali per comprendere un messaggio:
1° Non esiste una comunicazione verbale isolata, è quasi impossibile parlare senza fare alcun cenno
2° La comunicazione non-verbale invece può esistere isolata, mentre si tace ci si può toccare l’anello, i capelli, il naso...
3° Il silenzio e il rifiuto di parlare possono esprimere un messaggio, è un modo di attirare l’attenzione
4° Molto spesso non si è coscienti della propria comunicazione non-verbale
La comunicazione non-verbale (i movimenti del corpo) è involontaria e accompagna ciò che si dice, senza che sia possibile dominarla completamente. È possibile invece controllare certe espressioni facciali, ma è molto più difficile tenere fermi intenzionalmente piedi e mani. La comunicazione non-verbale porta la verità nella comunicazione, è rivelatrice di bugie.
E allora eccoci in vacanza. Non siamo sicuri delle intenzioni di una donna o di un uomo che a parole si mostra distaccato, allora facciamo appello alla distanza: più ci si allontana da qualcuno, più si sottolinea il distacco o il disinteresse o il disaccordo. Più ci si avvicina, in quella zona dove è possibile mettere le mani sulla vita o sulle spalle dell’interlocutore, più c’è il desiderio, a volte inconscio, di stabilire un contatto ravvicinato. Attenzione: se, lui o lei, mostra distacco, ma si avvicina mentre parla fino quasi a sfiorarci, possiamo capire che non è poi così indifferente a noi... Quando poi ci regala una rosa, ormai è tutto chiaro!

Maria Giovanna Farina







Coos'è la simpatia

Acrilico su tela di Flavio Lappo

Perché proviamo simpatia per qualcuno? Che cosa ci rende simpatici agli altri? Non c’è nulla di razionale nella simpatia infatti si prova per qualcuno al di là della sua bellezza, bravura, moralità… Essa è qualcosa di diverso dall’amore anche se difficilmente si può provare antipatia per qualcuno che si ama. I filosofi non si sono molto occupati di definire la simpatia, un’analisi esauriente fu condotta dal filosofo tedesco Max Scheler (1874-1928) che fece una netta distinzione tra simpatia e contagio emotivo proprio di un gruppo. Si tratta di quel particolare stato emotivo che vivono ad esempio i fan di un cantante per cui provano la stessa emozione quando lo ascoltano ad un concerto. Questa non è simpatia perché la simpatia è il partecipare ai sentimenti di un’altra persona senza per questo condividerli. La simpatia è comprensione, affettività e magari un certo grado di amicizia senza perdere la propria individualità separata, perciò essa non annulla la diversità tra le persone ma si rivolge all’altro senza rimanere coinvolta nei suoi interessi. La simpatia permette di capire l’altro, di mettersi idealmente nei suoi panni e di scorgere eventualmente i problemi che sono nella sua vita. Con la simpatia si può provare dispiacimento, quando ad esempio un nostro amico perde il lavoro, ci dispiace, lo capiamo e comprendiamo il suo tormento, ma non stiamo male come lui. Concludendo, quando proviamo simpatia per qualcuno è utile approfondire la conoscenza perché la simpatia favorisce un rapporto paritario e di scambio. Alla domanda perché proviamo simpatia per qualcuno possiamo rispondere che chi ci è simpatico, al di là delle sue caratteristiche positive o negative, mette in scena parti di noi a cui siamo affezionati, questa è la ragione per cui è così facile entrare in sintonia e provare simpatia per quella persona. La simpatia è una forza di attrazione che scatta nei confronti di qualcuno, per cui essere se stessi è il modo migliore per essere simpatici.



Perché amiamo gli animali


Gli animali fanno parte integrante della nostra vita; sono molte le famiglie in cui c’è anche un animale che dà e riceve affetto. Sin dai tempi antichi, nella poesia e nel linguaggio comune, gli animali hanno spesso simboleggiato qualche aspetto dell’animo umano, buono o cattivo, portato all’eccesso. Da sempre infatti il cane simboleggia la fedeltà, il leone la forza e il coraggio, lo sciacallo la vigliaccheria. Pensiamo alla favola La cicala e la formica di La Fontaine dove la formica rappresenta la previdente laboriosità mentre la cicala l’imprevidenza e con il suo continuo cantare non pensa a far provviste per l’inverno. Questa, come tutte le altre favole, ha una morale che indica all’uomo la ragionevole via da seguire durante l’esistenza. L’uomo vede nell’animale se stesso sia nelle parti nobili che in quelle meno nobili ed è questo il motivo prioritario per cui cerca la compagnia di un animale. Ma è anche vero che l’uomo pur essendo più intelligente non possiede alcune doti che invece possiede ad esempio il suo cane: il fiuto, l’udito e la sensibilità. C’è chi nel cane trova veramente un amico, può far sorridere vedere un uomo fare lunghi discorsi col proprio cane perché si è soliti  pensare che esso non capisca nulla, in realtà se non afferra il significato di tutte le parole comprende il dolce suono di una voce ricca di affetto. E allora come mai ogni anno tanti animali da compagnia vengono crudelmente abbandonati? Perché l’uomo per natura non è un compagno fedele e troppo spesso dimentica la fedeltà ricevuta. Inoltre non considera il fatto, rinforzato da un millenario retaggio culturale, che se pur meno intelligenti gli animali non sono degli oggetti, ma esseri viventi che provano sensazioni ed emozioni. È una colpa essere meno intelligenti dell’uomo? Rispondo con una considerazione di Leonardo da Vinci il quale sosteneva che l’uomo sarà veramente civile quando tratterà gli animali come suoi pari. 

Maria Giovanna Farina