Natura morta in rosso, opera di Paola Giordano
La
parola e la cura iniziarono un comune cammino tanto tempo fa,
inconsapevoli del loro imprescindibile, indissolubile e benefico
rapporto di cooperazione nella terapia. Quanto è efficace la parola
nella cura della malattia mentale? Questo mio breve percorso di
indagine desidera focalizzare il suo punto di origine, la sua
evoluzione e i suoi sviluppi per cercare una risposta attraverso il
pensiero di taluni studiosi di grande importanza teorica e pratica.
Prendo le mosse, partendo dalla contemporaneità, ritornando al
passato e poi ancora al presente, dalle considerazioni del filosofo
Michel Foucault (1926-1984) circa la condizione di esclusione sociale
della follia: le sue riflessioni sono a mio avviso imprescindibili.
Chi è folle, alienato, altro da sé, o ritenuto tale, non ha alcun
diritto, è escluso e tenuto a opportuna distanza. Dopo l'apertura
dei cosiddetti manicomi, la follia avrebbe dovuto farsi epifania:
mostrarsi senza alcun velo protettivo, ma non è stato così. Ma
siamo certi di cosa sia davvero Follia? Non sarà qualcosa che ancora
volutamente viene obliato? Una condizione umana da nascondere agli
occhi della presunta normalità?
Nel
dicembre del '70, il filosofo Michel Foucault durante la lezione
inaugurale al Collège de France di Parigi lesse un discorso,
divenuto il famoso testo L'ordine del discorso, dove
afferma:
[…]
suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme
controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo
numero di procedure che hanno la funzione di scongiurare i poteri e i
pericoli, di padroneggiare l'evento aleatorio, di schivarne la
pesante, terribile materialità.(1)
Il
filosofo francese considera come la produzione del discorso sia
soggetta ad una sorta di censura che si attua attraverso un certo
numero di procedure come quella di esclusione, interessante per la
nostra riflessione:
Esiste,
nella nostra società, un altro principio di esclusione: non più un
interdetto ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso
alla opposizione tra ragione e follia. Dal profondo Medioevo il folle
è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri:
capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto,
non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in
giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto, non
potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la
transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in
compenso, che le attribuiscano, all'opposto di ogni altra parola,
strani poteri, quello di dire una verità nascosta, quello di
annunciare l'avvenire, quello di vedere del tutto ingenuamente quel
che la saggezza degli altri non può scorgere.(2)
Nell'antitesi
ragione-follia si insinua indisturbato e con un certo grado di
prepotenza il potere del divieto. Del divieto ad esprimere il proprio
pensiero: sei folle e ciò che dici, in ogni produzione della tua
esistenza, rimane inattendibile. Con questo criterio si può far
tacere anche una profonda verità. La sua verità, quella visione del
mondo reale e concreta che appartiene solo a lui. Se è vero che il
folle nella propria alterazione e allucinazione scorge una dimensione
altra rispetto a quella condivisa universalmente, è altrettanto
plausibile e sacrosanto il suo poter/dover raccontare la propria
esperienza di esistenza a qualcuno cui interessi: questa diventa
libertà nella e della cura.
[….]
per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa [….] O
cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si
decifrava una ragione ingenua o scaltrita, una ragione più
ragionevole di quella della gente ragionevole [….] La follia del
folle si riconosceva attraverso le sue parole; ma non erano mai
accolte né ascoltate.(3)
Per comprendere la follia,
la psicosi, è invece assolutamente necessario ascoltare e saper
decodificare la parola, quel suono umano che il linguista Ferdinand
de Saussure, nella sua distinzione langue/parole,
significante/significato, ritiene altro dalla lingua. La lingua è un
codice di regole e di strutture grammaticali che ognuno prende dal
proprio contesto sociale senza poterle alterare. La parole invece è
il momento individuale, variabile e creativo del linguaggio, il modo
cioè con cui chi parla
“utilizza
il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio
pensiero personale”(4)
Questo
studio sulla lingua fornisce lo spunto culturale e teorico per la
nascita dell'ascolto terapeutico, ascolto di ciò che esiste al di là
di quella cosa che si palesa: il mettersi in ascolto di quell'Altro
che parla esprimendosi con determinate parole e non con altre. Parole
che vanno indagate. La deleteria consuetudine all'in-ascolto del
folle ha creato terreno fertile al non accoglimento di chi non è
ritenuto conforme, atteggiamento negativo che non si è fermato al
disinteresse bensì, andando oltre, si è spinto alla negazione della
sua verità.
Dice
Foucault:
Mai
prima della fine del XVIII secolo, un medico aveva avuto l'idea di
sapere ciò che era detto (come era detto, perché era detto), in
questa parola che pur tuttavia stabiliva la differenza. Tutto
l'immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non
gli era data che simbolicamente sul teatro in cui si faceva avanti,
disarmato e riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità
con la maschera.(5)
Colpisce
la grande attualità del discorso, il parlare di sé del folle che si
fa, diviene, rumore: il rumore è qualcosa di fastidioso che si
oppone al suono ritenuto invece armonioso e di gradevole ascolto.
Quando il rumore è sottofondo costante conduce al non-ascolto e,
anche se può trasmettere significando qualcosa di rilevante, nessuno
presta più attenzione. Il rumore procura fastidio, quando si fa
troppo rumore si ottiene disinteresse. Pensiamo al caso in cui per
criticare con la satira si fa spettacolo spettacolarizzando anche su
gravi fatti di corruzione, collusione e abuso: tutto portato al
paradosso e all'eccesso desta interesse e ilarità ad un'analisi più
superficiale, in realtà col tempo si risolve in tanto rumore per
nulla. Così l'immenso discorso del
folle, divenendo rumore, perde la sua natura
significante. Al folle, e a chi non è conforme allo status quo,
viene data solo la possibilità della maschera, una tragica copertura
della verità negata.
[…]
si dirà che tutto questo è finito oggi... ma tanta attenzione non
prova che la vecchia partizione non sia più valida oggi: basta
riflettere su tutta l'armatura del sapere attraverso cui decifriamo
questa parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che
consente a qualcuno, medico, psicoanalista, di ascoltare questa
parola e che consente nello stesso tempo al paziente, di venir a
portare o a trattenere disperatamente, le sue povere parole; basta
riflettere su tutto questo per sospettare che la partizione, lungi
dall'essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse,
attraverso nuove istituzioni […] e quand'anche il ruolo del medico
non fosse quello di prestare orecchio a una parola finalmente libera,
l'ascolto si esercita pur sempre nel mantenimento di una cesura
[…](6)
L'opposizione
ragione/follia è solo apparentemente estinta e in questo discorso
Foucault mette in luce il potere di chi ascolta. Un potere che può
diventare arbitrio se chi ode non è libero dagli stereotipi sulla
diversità, sul non senso delle parole degli alienati che, nei casi
gravi, divengono “insalate verbali”. Eppure quelle parole, se
studiate, sanno comunicarci qualcosa. Le parole sono la
materializzazione del pensiero, per conoscere ed indagare il pensiero
si parte dal discorso del soggetto. È importante sottolineare che
chi ascolta e deve comprendere fa una traduzione, deve dare senso e
nel farlo può fuorviare e tradire il senso. Questa condizione ha le
sue origini in Ermes, il messaggero degli dei, colui che spiega e
quindi tra-duce il loro dire, l'interprete è di conseguenza sempre
un tra-ditore. L'Ermeneutica filosofica ai suoi albori è pertanto
teologica, Heidegger ci spiega con chiarezza il suo significato
filosofico:
[…]
ermeneuein è quell'esporre che reca un annuncio, in quanto è in
grado di ascoltare un messaggio […] Ermeneuein non significa
primariamente interpretare ma prima di questo il portare messaggio e
annuncio.(7)
Questa
condizione dell'ermeneuta, svincolata dalla Teologia, diventa
capacità di ascolto che non tradisce il senso ma lo porta fuori, nel
senso che lo sa condurre-al-di-fuori della mente simbolicamente
rappresentata dall'entità divina: si porta fuori attraverso il
mediatore che, ascoltando, si fa messaggero. Chi “estrae” non può
subito interpretare, o meglio non può farlo se non prima abbia
compreso, studiando, osservando e ascoltando, chi parla e le sue
parole. Quella parole di cui raccontava de Saussure:
la produzione personale.
Anche
se il matto è stato liberato, sciolto dai vincoli dalle catene da
Philippe Pinel, la cui opera Il trattato medico-filosofico
sull'alienazione mentale e la mania è uscita nell'ottobre
del 1800, per Foucault non sembra esserci via di scampo. Facendo
quindi un balzo indietro di oltre un secolo prendiamo in
considerazione Pinel, psichiatra e filosofo che libera i folli
custoditi in un regime di vera deprivazione della libertà, non solo
fisica ma anche morale. Durante gli anni 1793-1795 in cui è medico
presso l'ospedale di Bicêtre a Parigi, Pinel attuando la liberazione
dalle catene fa un gesto che mette in risalto la possibilità della
cura per ogni malato di mente, e con ciò non dice che tutti sono
guaribili, ma dà inizio alla psichiatria moderna creando una vera e
propria rottura epistemologica con la concezione antica della
malattia mentale. Anche dal punto di vista etico c'è la presa di
coscienza che ogni folle è una persona che non può essere trattata
in modo disumano. In un passo della sua opera afferma, riferendosi ai
luoghi, ciò che ben rappresenta la detenzione psichiatrica
dell'epoca:
[…]
la grossolana durezza, i colpi, le percosse, oserei dire i
trattamenti atroci, e talora mortali che si possono perpetrare in
quegli ospizi di alienati in cui gli inservienti non sono tenuti
sotto controllo con la più attiva e severa vigilanza.(8)
La
teoria psichiatrica di Pinel è una teoria delle passioni, passioni
che se portate all'eccesso conducano alla follia. Va sottolineato che
terapia morale non ha nulla a che vedere con l'Etica e la Morale, ma
si tratta di una vera e propriaterapia psicologica da
applicare al malato a partire dalle condizioni in cui lo si trattiene
in ospedale. La descrizione è di straordinaria modernità e
sintetizzando la possiamo riassumere in tre punti.
1-
Il malato va tenuto il più possibile lontano dall'ambiente
famigliare. 2- I manicomi devono essere suddivisi in reparti. 3-
Devono ricercarsi dei metodi psicologici per
contrastare la malattia mentale.
Effettivamente
si comprende come il vivere nel contesto patogenetico sia
assolutamente opponente alla guarigione, come abitare in promiscuità
con persone più gravi sia deleterio; questo trattamento psicologico,
se pur rudimentale, si avvicina al concetto di cura moderno in cui la
parola inizia ad entrare.
I
cupi malinconici saranno messi in un sito piacevole e in luogo adatto
alla coltivazione dei vegetali; i maniaci in stato di furore [...]
saranno confinati nel luogo più appartato dell'ospizio […] Coloro
che sono affetti da mania periodica, saranno tolti da questo locale
nei loro intervalli di lucidità e riportati tra i convalescenti
[..](9)
Il
direttore del manicomio, descritto come una persona dall'alto valore
morale in grado di fungere da esempio per tutti i degenti, è una
sorta di padre giusto in cui identificarsi per ristabilire
quell'ordine interiore andato perduto. Un ordine esterno, la
divisione in reparti, una terapia precisa, una disciplina nella
conduzione del trattamento, riportano a quell'ordine interiore che la
malattia ha disabilitato. Naturalmente non tutto ciò che Pinel
afferma è da prendere come esempio assiomatico, ma è degno di nota
il grande passo avanti fatto compiere alla psichiatria nel suo
cammino verso lo strumento della parola.
La
mania di cui parla Pinel verrà sostituita con il termine psicosi,
definizione che si diffonderà nella letteratura psichiatrica di
origine tedesca a partire dal XIX secolo, sarà poi la psicoanalisi a
dividere le psicosi in due grandi gruppi:
1-
paranoia e schizofrenia da un lato 2- mania e melanconia dall'altro.
Con
queste premesse ci avviciniamo ad una rinnovata visione della psicosi
e del soggetto che ne è affetto. È il nuovo approccio a far da
terreno produttivo all'ascolto sempre più approfondito del senso
della parola in rapporto al contesto. In questa prospettiva, Gregory
Bateson, l'iniziatore della terapia famigliare, è culturalmente
rilevante nel '900 in campo psichiatrico: non è psichiatra, ma il
suo grande apporto allo studio e all’analisi della comunicazione
diventa una pietra miliare. L'antropologo Bateson nella sua
opera Verso un'ecologia della mente ci racconta come
studia l'insorgenza della schizofrenia nelle famiglie da lui prese in
esame. Lì scopre il doppio vincolo (double-bind),
situazione in cui la madre trasmetterebbe al figlio messaggi tra loro
discordanti. Ciò che lo studioso ha evidenziato sono delle
particolari situazioni famigliari in cui è presente una madre che
non sa gestire l'affettività e in contemporanea la mancanza di una
figura di riferimento forte come un padre: fin qui nulla di nuovo.
Ciò che fa della teoria di Bateson una profonda innovazione nel
campo dell'analisi della comunicazione è l'individuazione del doppio
vincolo: una sfasatura tra messaggio digitale e analogico per dirla
in modo tecnico. Un esempio tratto dalle sue parole si rivela del
tutto esaustivo per comprendere il ruolo comunicativo materno:
[…]
il bambino deve sistematicamente distorcere la sua percezione dei
segnali metacomunicativi. Ad esempio se la madre comincia a provare
ostilità (o affetto) per il figlio e contemporaneamente si sente
spinta a ritrarsi da lui, potrebbe dirgli: “Va' a dormire sei
stanco e voglio che ti riposi”. Questa frase apertamente affettuosa
tende a negare un sentimento che potrebbe essere espresso con le
seguenti parole: “Va' fuori dai piedi perché sono stufa di
te”.(10)
Con
le scoperte di Bateson, dallo studio della lingua come produzione
individuale, si giunge all'analisi della tonalità della voce nel
tentativo di trovare qualcosa che vada oltre il significato
simbolico, il significante o il mero significato lessicale. La
metacomunicazione dello schizofrenico diventa il punto di accesso
alla sua sfera emotiva e comportamentale, un nuovo ed efficace metodo
di indagine che tiene conto delle sue relazioni sistemiche. La
famiglia è un piccolo organismo di relazioni incrociate che
ripercorre il grande sistema relazionale della società in cui il
malato deve vivere: se nel suo piccolo e protetto nucleo privato non
riesce a relazionarsi in modo adeguato come potrà farlo in balia
dell'estraneo nel grande mare pubblico?
Se
il bambino interpretasse correttamente i segnali metacomunicativi
dovrebbe fare i conti col fatto che la madre non desidera averlo
vicino e per di più lo sta ingannando dimostrandosi affettuosa. Egli
sarebbe “punito” per aver appreso con cura l'ordine dei messaggi,
e quindi piuttosto che riconoscere l'inganno materno tende ad
accettare l'idea di essere stanco.(11)
Per
continuare a vivere con la madre, il bambino è spinto ad ingannare
se stesso dall'interno, ciò che percepisce dentro di sé, e
dall'esterno, ciò che riceve dalla comunicazione materna: si rivela
così un doppio errore di discriminazione comunicativa.
Il
bambino dunque è punito se discrimina correttamente i messaggi della
madre, ed è punito se li discrimina scorrettamente: è preso in un
doppio vincolo.(12)
Se
decodificasse correttamente i segnali della madre dovrebbe ammettere
dolorosamente di non essere gradito, se li negasse mentirebbe a se
stesso: nell'impasse sceglie di mentire. Questa
particolare condizione accade anche ai bambini normali, ma nel doppio
vincolo studiato da Bateson si crea una distorsione comunicativa
permanente e di conseguenza deleteria per l'equilibrio del piccolo
che deve crescere.
L'analisi
e la decodificazione corretta della comunicazione distorta conduce
così nell’area della cura: ora è possibile instaurare un dialogo,
seppur particolare e con delle regole precise, anche con uno
psicotico. Nella cura della schizofrenia entra in gioco il dialogo
che è dià, "attraverso" e logos,
"discorso”, è un parlare passando attraverso, direi
perforando il muro dell'incomunicabilità. Socrate ne era maestro, ne
fece un uso, forse, inconsapevolmente terapeutico ante litteram. Il
dialogo ricostruttivo del sé nasce con la sua arte
maieutica e percorrendo un lungo viaggio fino al lettino cerca il suo
maieuta nella rete di relazioni in cui siamo immersi. Ma è il famoso
sofista Gorgia da Lentini vissuto nel V secolo a.C. a fornire un
significato alla parola del tutto originale e precursore dei tempi.
Nel suo Encomio di Elena si esprime così
[...]
la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e
invisibilissimo, divinissime cose sa compiere, riesce infatti a
calmar la paura, e a eliminar il dolore, e a suscitare la gioia, e ad
aumentare la pietà.(13)
La
sua spiegazione è legata alla fisiologia e lo afferma poche righe
dopo
C'è
tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso
rapporto che tra l'ufficio dei farmaci e la natura del corpo.(14)
Per
i Greci il farmaco (farmakon) ha il duplice valore di veleno e
filtro magico, la parola come la medicina può rivelarsi infatti un
rimedio efficace o un veleno mortale. Comprendere questa estrema e
antitetica potenza della parola, il suo essere tagliente e violenta
mentre all'opposto è indagatrice e lenitrice della sofferenza,
rivela una dote di profonda analisi della comunicazione che ci mostra
come certe cognizioni sulla vera natura dell’animo umano provengano
da molto lontano. Certo, Gorgia era un sofista e la sua arte rivolta
alla persuasione ingannevole lo dipinse come venditore di parole,
maestro di retorica, ma ciò non offusca minimamente queste
intuizioni così acute. Da filosofi non dobbiamo farci condizionare
dalle etichette, dagli stereotipi, e prendere il meglio della
produzione intellettuale di ogni pensatore.
Per
concludere il nostro breve viaggio possiamo considerare il fatto che
conoscere, e sapere riconoscere, le psicosi e le sue manifestazioni
diviene un punto fondamentale per non commettere gravi errori di
valutazione, per non proporre una cura filosofica con la parola a chi
non la può e non la deve intraprendere. Ricordiamo che la parola è
un esser-ci finito e infinito dove l'essere si esprime attraverso il
linguaggio, strumento in continua evoluzione che assume
significazione anche nel contesto della follia. La parola nella cura
della psicosi può dare il suo prezioso apporto: prima di tutto
nell’ascolto di quel rumore di cui parlava Foucault: “Tutto
l'immenso discorso del folle si risolveva in rumore”.
Che
ciò non sia più.
1)
M. Foucault, L'ordine del discorso, Einaudi, Torino 1985,
p. 9.
2) Ibidem,
pp. 10-11.
3) Ibidem,
p. 11.
4)
F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza,
Bari 1978, p. 24.
5) Ibidem,
p. 11.
6) Ibidem,
p. 12
7)
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia,
Milano 1974, pag. 89-90.
8)
Ph. Pinel, La mania: trattato medico-filosofico
sull'alienazione mentale, Marsilio, Venezia 1987, p. 56.
9)
Ivi, p. 118.
10)
G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi,
Milano 1997, p. 258.
11) Ibidem,
p. 259.
12) Ibidem,
p. 260.
13)
Gorgia, Encomio di Elena, 82 B11, 8.
14)
Gorgia, Encomio di Elena, 82 B 11, 14.
Maria
Giovanna Farina