Parolacce: da usare con cautela


Le cosiddette parolacce sono ormai da tempo nel nostro comune modo di esprimerci, c'è chi le condanna senza appello e chi ne fa un uso smodato: come sempre in medio stat virtus, la virtù sta nel mezzo. Quando le parole gergali più o meno sconce, lasciando fuori dal discorso le bestemmie che vanno a toccare la sensibilità religiosa delle persone o le imprecazioni contro la madre, entrano troppo nel lessico quotidiano, impoveriscono il linguaggio. In frasi tipo: “Cosa vuoi? Che cos'è questo oggetto? A cosa stai pensando?” il termine “cosa” viene spesso sostituito con una parolaccia che non devo star qui a ripetere. Già il termine generico cosa andrebbe sostituito quando possibile, ma se al suo posto mettiamo la solita parolaccia ecco che ci riduciamo a parlare come dei semianalfabeti; pensiamo a cosa accade ai bambini se non crescono con la possibilità di abituarsi ad un esprimersi ricco di vocaboli. Non imparano la lingua in modo appropriato e crescono con gravi lacune in Italiano. Per genitori ed insegnanti diventa difficile il compito educativo perché i media a volte ingigantiscono il fenomeno e mostrano come modelli ad esempio comici che della parolaccia fanno il loro cavallo di battaglia. Certo i gusti son gusti, ma far ridere è un'arte che si avvale anche di battute semplici per dire grandi verità con ironia usando anche il linguaggio del corpo. Se pensiamo a Charlie Chaplin e al suo celeberrimo Charlot non c'è da aggiungere altro. La parolaccia non va però eccessivamente demonizzata, a volte può servire in un racconto, per liberarsi da un momento di rabbia, per dire a qualcuno che ci ha scocciato fin troppo: naturalmente le parole specifiche esistono per esprimersi elegantemente, ma quando siamo arrabbiati è difficile essere eleganti. Possiamo concludere con una efficace istruzione per l'uso: facciamo un impiego vario della nostra bella lingua e ogni tanto concediamoci qualche deroga, ma che resti tra noi! Tanto non ci sente nessuno...

Maria Giovanna Farina



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