La
Filosofia antica ci ha lasciato un insegnamento che è stato raccolto
e sviluppato dalla Psicologia moderna, ovvero la convinzione che
nella nostra mente le idee (o concetti, se preferite) sono associate
per contiguità e per contrasto. La contiguità a sua volta implica
che due concetti possano legarsi tra loro o perché uno è causa
dell’altro o perché vi è somiglianza tra essi. In un caso come
nell’altro, sembra che per la mente sia naturale associare
immagini, parole, pensieri, sensazioni, ricordi, e quindi concetti e
idee, o per una somiglianza di qualche tipo o perché, al contrario,
sono uno l’opposto dell’altro. Non è un caso, ad esempio, che
esistano i Dizionari dei sinonimi e dei contrari. Sinonimi e contrari
possono sembrare lontani eppure sono intimamente vicini. Mi viene in
mente un altro esempio, in un contesto del tutto diverso: ci si
chiede spesso se le relazioni personali (che siano di natura
sentimentale, amicale o professionale) si dipanino meglio tra persone
affini o tra persone molto diverse tra loro, che possono integrare le
reciproche differenze. La risposta non è univoca e comporta vari
livelli. La Psicologia contemporanea di stampo cognitivista ha
dimostrato, con fior di esperimenti, che la relazione tra concetti
opposti è molto forte, ancora di più che tra concetti simili
(pensiamo a come il “bianco” faccia venire in mente in maniera
repentina il “nero”, a come il “bene” richiami l’idea del
“male”). Una cosa si definisce in maniera netta proprio grazie
alla contrapposizione con il suo opposto e dunque vien da pensare che
di ciò che è opposto ce n’è proprio bisogno. Uscendo ancora una
volta dal campo strettamente mentalistico, mi viene in mente un
esempio sociale: i gruppi si rafforzano al loro interno proprio nel
momento in cui si profila all’orizzonte un nemico comune. La
contrapposizione in campo dialettico, poi, può essere foriera di
grande creatività. Hegel, con la triade tesi-antitesi-sintesi, ci
aveva già detto parecchio. Gli opposti esistono anche nel
comportamento non verbale? Certamente. Ad esempio, una posizione di
chiusura del nostro corpo e una di apertura sono all’opposto. Però,
a differenza del comportamento verbale, in quello non verbale è
possibile ravvisare molte più sfumature tra gli opposti, tant’è
che un osservatore attento e sensibile non se le lascerà sfuggire.
Basta che la piega della bocca o l’arricciamento del naso o i
movimenti degli occhi siano leggermente diversi dal solito, che il
nostro interlocutore può rendersi conto che c’è qualcosa che non
va, anche se i messaggi non sono eclatanti.
Queste
riflessioni sono scaturite dalla mia partecipazione al Laboratorio
del Ben-essere di Giugno, che si è concluso con l’idea di avviare,
dall’autunno, una sperimentazione filosofico/teatrale sul benessere
partendo dal suo opposto, il malessere. Credo che l’idea sia
interessante, che mostrare condizioni di disagio e situazioni ricche
di problematicità sia un buon modo per indurre nello spettatore
riflessioni che lo conducano al desiderio di immaginare (e
realizzare) qualcosa di diverso. In ultima analisi, mettere in scena
il malessere, le sue origini, le sue manifestazioni sintomatiche può
richiamare, per opposizione, il suo contrario, com’è naturale per
la mente umana. Ricordiamo, infine, che il teatro coinvolge
interamente la persona che sta sulla scena, mente e corpo, e crea
risonanze in chi assiste. E quindi, considerata la stretta relazione
tra mente e corpo e quello che nasce dalla loro interazione profonda,
sul palcoscenico è possibile far emergere tutte le contraddizioni
che si annidano nella mente e si manifestano nel corpo e, viceversa,
agendo sul corpo è possibile intervenire sulla mente. Gli obiettivi
che il nostro Laboratorio si prefigge rimangono sempre gli stessi:
trovare nuove vie alla cura facendo ricorso a più strumenti
comunicativi, indurre riflessioni e suscitare domande “autentiche”,
che non saturino il pensiero, ma che, al contrario, stimolino nuove
ricerche e nuovi approcci.
Eleonora
Castellano, docente e psicologa
(Tutti
i diritti riservati©)
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