“Fare
il genitore è il mestiere più difficile”,
si dice. Buon senso popolare, antico come il mondo. E della saggezza
antica bisogna fidarsi, così come dei moniti e dei consigli, da
rapportare ai “tempi moderni”, ma da non sottovalutare o mettere
alla berlina per partito preso. Da quando la Psicologia e la
Pedagogia hanno assunto una connotazione scientifica (siamo nella
seconda metà dell’Ottocento), staccando il cordone ombelicale da
mamma Filosofia, con cui continuano comunque a dialogare, ne abbiamo
lette e sentite di tutti i colori in tema di educazione infantile.
Rousseau, Pestalozzi, Montessori, Piaget, Vygotskij, Bruner, Skinner
(solo per citarne alcuni) hanno elaborato concezioni e approcci
pedagogici che si sono susseguiti nel tempo, secondo le mode e i
valori dominanti del momento.
Oggi,
per gli educatori, genitori e insegnanti in primis, un ventaglio di
possibilità, di modelli, di punti di riferimento.
Un gran caos, in realtà…Tirati da una parte e dall’altra, in
conflitto tra loro e con se stessi, gli educatori di oggi spesso
brancolano nel buio, indecisi su come fare per dare valore al loro
ruolo, per renderlo fecondo e non perdere importanti opportunità.
“Fare il genitore non è semplice”, dicevamo all’inizio e
possiamo estendere il discorso a tutte le figure educative (maestri,
docenti, allenatori, istruttori, ma anche nonni, zii, baby sitter…)
e sbagliare è più facile che far bene. Ma la madre non dovrebbe
essere “sufficientemente buona”, come diceva il buon Winnicot?
Cosa vuol dire “sufficientemente”? Che deve perdonarsi quando
“sbaglia” perché è un essere umano? Che non deve rifarsi per
forza a teorie precostituite ma apprendere dall’esperienza,
rielaborandola? Che deve anche sbagliare, di tanto in tanto, per dare
al bambino la possibilità di uscire dalla simbiosi con lei e
aiutarlo, da un lato, a costruire confini che lo delimitino dal mondo
esterno, e dall’altro lato dargli uno spunto per comunicare? Se la
madre sa sempre quello che vuole il suo bambino, lo anticiperà nel
gesto, lo “imboccherà” prima che possa chiedere, gli darà
l’illusione di un’onnipotenza che, se grave nell’infanzia,
diventa gravissima e deleteria nel corso della vita adulta. E
soprattutto rallenterà il suo sviluppo comunicativo: che bisogno ha
quel bambino di modulare i suoi strumenti comunicativi se la madre
intuisce subito e perfettamente quello di cui ha bisogno e lo
“accontenta” seduta stante? Sulla falsa riga di queste
riflessioni, negli ultimi anni hanno tenuto banco fior di pedagogisti
e di psicologi infantili che hanno fatto infervorare il dibattito,
discutendo appunto sull’opportunità di non essere troppo
accondiscendenti e di saper dosare le giuste e graduali
frustrazioni, necessarie perché i bambini e i ragazzi sviluppino
personalità consapevoli di sé e degli altri, responsabili e
rispettose delle regole, dei confini, dei divieti.
Fermo
restando che non ho nulla contro un atteggiamento educativo
autorevole e coerente
con se stesso nel tempo, voglio un attimo soffermarmi sulla questione
vecchia, ma non ancora risolta, su come si possa distinguere sempre e
chiaramente un atteggiamento autorevole da uno eccessivamente
autoritario. Ok, il più delle volte, di fronte a richieste insane,
dobbiamo dire di no, sia per proteggere l’incolumità dei soggetti
sia per non avvallare un comportamento capriccioso o insolente. Ma
siamo sicuri che basti dire no per salvare capre e cavoli? E poi in
che forma porgere questo no? Non è roba da poco, la risposta non è
banale. Personalmente sono convinta che formule e ricettari siano
utili, ma da non prendere come oro colato perché pericoloso. Siamo
tutti diversi, come persone, come educatori e come soggetti da
educare. D’altronde, il senso dell’educare non sta in quell’ex
ducere, che vuol dire “tirar fuori”?
Tirar fuori cosa? Ma quello che si ha dentro, ovvio. Potenzialità,
attitudini, inclinazioni. Socrate, con la sua maieutica, aveva già
detto tutto. E se io, educatore, voglio “essere sufficientemente
buono” (allargando il discorso di Winnicot, rivolto per lo più
alla madre), non posso imporre la mia personalità al mio educando,
non posso nemmeno essere uguale con tutti i miei
figli/allievi/educandi.
Pari
opportunità non vuol dire dare la stessa cosa a tutti.
Vuol dire garantire (o almeno provarci con tutte le proprie forze e
risorse) un punto di arrivo possibile e dignitoso per tutti. Ma
i percorsi possono essere anche molto diversi fra loro, i punti di
partenza e di arrivo possono non coincidere (e spesso è così). E
quindi i libri leggiamoli, riflettiamo e cresciamo insieme, educatori
ed educandi, ma cerchiamo anche di fare lo sforzo di reinventarci
ogni giorno e di leggere di volta in volta la situazione che ci si
presenta con sguardo limpido, non offuscato da pregiudizi personali o
culturali. Ai bambini e ai ragazzi bisogna dir di no, ma bisogna
anche saperglielo dire. Non dobbiamo umiliarli, svilirli o
squalificarli. Il bambino va accolto nei suoi bisogni e rispettato,
perché altrimenti lui non ci rispetterà. È banale, ma si apprende
molto per imitazione e per identificazione (che è un processo ancora
più complesso e profondo). Ogni bambino è diverso e se c’è
quello che ha un carattere mite e remissivo, per cui basterà una
semplice proibizione a evitare disastri, c’è anche quello che
reagisce con ribellione e testardaggine. E allora, in quel caso il
rimprovero o la punizione non bastano. Anzi, a volte un inasprimento
del divieto diventa controproducente, fa aumentare le tensioni,
creando escalation pericolose che non fanno bene a nessuno e
soprattutto al rapporto tra educatori ed educandi. E allora che fare?
Cedere e farsi “mettere i piedi in testa” oppure arrivare al
lassismo? No. Trovare delle strategie, sì. Quali?, vi chiederete.
Risposte univoche non ce ne sono. Però portare il bambino a
interiorizzare il divieto facendolo riflettere con discorsi alla sua
portata e/o aggirare l’ostacolo proponendo qualcosa di alternativo
a ciò che viene richiesto, ma di altrettanto accattivante e/o fare
un patto in cui concedere e togliere qualcosa e/o far leva sul
meccanismo dei premi piuttosto che sulle punizioni sono delle
possibilità praticabili.
L’importante,
a mio avviso, è non partire ingessati e saper distinguere le
situazioni. Anche nei comportamenti più
inadeguati, anche nelle richieste più assurde si nasconde un altro
messaggio, che bisogna saper decifrare e non sempre è facile. Molte
volte i bambini e i ragazzi ci richiedono un’attenzione (ma
un’attenzione vera, non il semplice esserci fisicamente ) maggiore,
oppure, con i loro dispetti, ci comunicano un conflitto che stanno
vivendo dentro, in relazione alla loro crescita. A volte, alcuni
bambini, che sembrano impossibili da educare, sono “semplicemente”
depressi e manifestano indirettamente il loro disagio. Chi se ne
prende cura deve, innanzitutto, portare pazienza e non agire per
schemi precostituiti. Ma soprattutto deve sforzarsi di non cedere
all’esasperazione o al vittimismo. I bambini e i ragazzi vanno
accompagnati nella loro crescita, vanno incoraggiati, contenuti e
indirizzati. E vanno, soprattutto, capiti. È in gioco la costruzione
della loro identità. Oggi i padri sono molto più presenti
all’interno delle dinamiche della famiglia e questo è un bene, ma
allo stesso tempo molti di loro devono ritagliarsi ancora un ruolo
nuovo, in cui sostenere e collaborare con la madre, senza
sovrapporsi, senza sconfinare. I bambini hanno bisogno di rapportarsi
alla “funzione” materna quanto a quella paterna, a prescindere da
chi incarni quei ruoli che attengono al “femminile” e al
“maschile”.
Un
padre può anche svolgere funzioni “materne” e la madre funzioni
“paterne”, l’importante è essere
d’accordo e garantire la coerenza nella diversità per non esporre
il bambino a continue contraddizioni, pena la disorganizzazione della
sua personalità. Ma di questo ne parliamo magari una prossima volta.
Eleonora
Castellano www.eleonoracastellano.com
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